L’amante di Wittgenstein di David Markson
Provare a raccontare l’esperienza di lettura de «L’amante di Wittgenstein» di David Markson potrebbe essere un’operazione molto difficile. Tra tutti i libri della collana Black Coffee di Edizioni Clichy ecco spuntare il titolo che per qualità, sperimentazione e consecutiva sorpresa mi ha mozzato il fiato.
Potrei provare a spiegare quanto questo autore abbia raggiunto tardi il successo, quanto nel nostro panorama sia stato sconosciuto e quanto sia importante per un certo David Foster Wallace, tanto da spingere quest’ultimo a scriverne un saggio dedicato (incluso in questa prima edizione italiana).
Nulla di questo verrà però fatto dal sottoscritto.
L’amante di Wittgenstein potrebbe essere la storia di una donna, di quelle con qualche rimorso nella vita, piene di indecisioni e amnesie. Potrebbe però non esserlo.
L’amante di Wittgenstein potrebbe essere la storia di una città cangiante, multiforme, di quelle che illuminate dal sole potrebbero sentirsi un giorno Parigi, un giorno Savona, per poi accorgersi di sentirsi New York. Solo il buio svelerebbe il cielo di Troia, di una non-città.
L’amante invece potrebbe essere sì quella di Wittgenstein, ma non faticheremo a sostituire quest’ultimo con Van Gogh, Dostoevskij o un più banale Marlon Brando. Il centro del mondo alla fine è l’amore, quello costruito con le parole, prima ancora dei fatti, quello che Markson riempie di ossessioni, paure e quel pizzico di coraggio usando frasi brevi, giusto qualche punto a dividerle.
Il mondo potrebbe essere troppe cose, come quelle che ogni giorno ci circondano, quelle con le quali lottiamo, cose orribili come cose affascinanti, così uniche da esser considerate arti. Cose da non riuscire neanche a definire in quanto cose di indecifrabile bellezza.
Potremmo addirittura rischiare di non capirci niente, dovendo seguire il flusso di coscienza Markson, della sua protagonista, dando per buona solo una certezza.
Non c’è dubbio che queste siano perplessità ininfluenti. Tuttavia è noto che le perplessità ininfluenti, di tanto in tanto, diventano lo stato emotivo fondamentale dell’esistenza, si potrebbe pensare.
Il mondo è tutto ciò che accade.
La parola con Wittgenstein potrebbe anche non voler dire niente, spogliata di ogni significato, confinata in un museo abbandonato pieno di finestre rotte e qualche gatto che ascoltando con attenzione potrebbe anche non esser mai esistito.
Mi sono trovato tra le mani un romanzo grazie al quale ho potuto guardare attraverso le stesse finestre di Heathcliff, giovane ragazzo confinato su una brughiera innevata, riuscendo a vedere molte storie, passate, presenti e future circondate da un’avvolgente solitudine.
Questa la costante di quello sguardo, un senso di unica lotta con noi stessi e il mondo, entità definita come un continuo accadimento di concretezze. Il resto è nulla, nessuno il diritto di sentirsi vivo.
Poche volte la narrativa si è spinta fino a questa meta o non-meta, di fronte a un ignoto solitario. Wallace prese Wittgenstein e lo modellò per la sua Scopa del sistema. Markson qui, grazie a questo libro visionario come pochi, manifesto del più furioso postmoderno americano, potrebbe risultare l’antidoto contro la solitudine, quello giusto per stare finalmente bene con noi stessi. O forse no, alla parola dimostrarlo.
Autore: David Markson
Traduttore: Martina Testa, Sara Reggiani
Editore: Edizioni Clichy
Collana: Black Coffee
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