Svetlana Aleksievič: Nobel alla Letteratura tra giornalismo, presente e passato.
Il Premio Nobel alla Letteratura 2015 è stato assegnato alla scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič.
Per l’ennesimo anno i vari Roth, Murakami e McCarthy sono stati accantonati per far spazio a un nome considerato (dai più) di nicchia.
La vincitrice di quest’anno punta però i riflettori su delle dinamiche che necessitano un approfondimento, in modo da evitare la solita rivolta da premio che negli anni gridava e ha gridato allo scandalo per il riconoscimento di penne come quella di Patrick Modiano o di Alice Munro.
Bisogna accettarlo, il Premio Nobel di quest’anno è stato vinto da una GIORNALISTA. Una cronista che nella sua carriera ha scritto libri di denuncia, attraverso i quali analizzare e mettere a confronto alcuni momenti storici (a lei cari e vicini) con le numerose testimonianze raccolte.
Ecco quindi la prima domanda incriminante sulla quale riflettere:
“Può il giornalismo essere letteratura?”
Personaggi nostrani come Oriana Fallaci e Curzio Malaparte molto probabilmente avrebbero risposto all’ardua questione con un sonoro sputo e una dose d’indignazione non trascurabile.
La letteratura è testimonianza romanzata anche della storia dell’uomo, il suo rapporto con la storia è fraterno, è legato da radici comuni, innegabili e imprescindibili.
La Aleksievič par aver scritto inchieste romanzate adottando un genere letterario personale da lei definito romanzo di voci. Sottolineerei la forma romanzo, una forma che con il saggio e con l’articolo tradizionale ha a che fare solo in minima arte.

Da questa banalissima constatazione si apre una seconda questione relativa alla valenza di questa assegnazione.
“Si tratta di un Nobel giusto?”
Prima ancora di conoscere questa autrice e di capire quanto sia importante il suo contributo, non posso nascondere di aver assistito a una scelta che potrebbe rivelarsi atipica.
A prescindere dal merito, il Nobel (soprattutto quello letterario) dovrebbe, oltre i suoi valori variabili, essere anche lo specchio del nostro presente, dovrebbe rappresentare la tradizione e la cultura del popolo (e di una globalità) a cui la penna vincitrice è legata (cosa che l’autrice bielorussa potrebbe fare solo in parte).
Guardo quindi il popolo bielorusso con le sue tradizioni burrascose, il quale vive ancora nel passato (grazie anche alla sua condizione attuale). Vive nelle sua storia e nei suoi dolori e l’opera della Aleksievič non fa altro che sottolineare (giustamente) questo.
Con questa assegnazione abbiamo fatto un salto di dieci-vent’anni nel passato, abbiamo riportato il nostro sguardo proprio lì, un Nobel con un sguardo melanconico, un Nobel potenzialmente non attuale (nonostante la storia stessa lo sia) e che mette sotto il naso del lettore temi storicamente superati come Cernobyl, la guerra in Afghanistan e il crollo dell’Unione Sovietica.
Il racconto seppur passato e rappresentativo che sia, in ambito di Nobel non deve essere solo la fotografia di un periodo, deve diventar un urlo attuale.
La domanda è inevitabile: è una tragedia giapponese o dell’intera umanità? Il disastro atomico ha o non ha incrinato la nostra idea di civiltà? E i nostri valori? La paura è un’ottima insegnante. La prima lezione è stata Černobyl’. E di Černobyl’ parlava già la Bibbia…
afferma la Aleksievič nell’introduzione di Preghiera per Černobyl’.
Sono sicuro che romanzi come «I Ragazzi di Zinco», «Incatenati dalla morte» (Edizioni e/o) e inchieste come «Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo» (Bompiani) sappiano proporre una trattazione e una riflessione quantomeno attuale.
Potremmo scoprire una penna che fa del passato la sua arma per affrontare il presente. Sarebbe bello un Nobel che guardi al presente con gli occhi del passato, una letteratura che ci sappia aiutare anche nel quotidiano, così come è sempre stato.
Svetlana Aleksievič premiata “per la sua opera polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo” dovrebbe esserci ampiamente riuscita.
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