CJ Leede: gridare nel vuoto. Maeve mi ha permesso di farlo.
Salone del libro di Torino, leggo la prima pubblicazione di Mercurio Books e mi aggrego alla prima della neonata casa editrice romana.
Dopo aver apprezzato «Maeve», l’esordio horror dell’americana CJ Leede, ho avuto il piacere di incontrarla in occasione del suo tour europeo tra Italia e Francia. Così nasce questa chiacchierata, con l’intento di guardare a quel personaggio tutto al femminile che sta facendo parlare di sé.
Questa è la storia di Maeve Fly, raccontata da chi la conosce da sempre. Abbiamo parlato di orrore, solitudine e scrittura. Così come vuole la tradizione, lo abbiamo fatto usando sempre un occhio di riguardo.
Maeve è il tuo esordio, ho letto che in questi anni hai avuto professori d’eccezione come Sam Lipsyte. Volevo mi raccontassi come sei arrivata alla scrittura, ma soprattutto la genesi del libro.
Non avevo intenzione di diventare una scrittrice, non era il mio progetto. Mi sono laureata in studi medievali e durante il mio ultimo anno universitario ho assistito a una lezione di scrittura aperta al pubblico che ha cambiato tutto per me. Così ho cominciato a studiare alla Columbia dove ho conosciuto grandi personalità che poi sono diventati i miei insegnanti. Ho cominciato a scrivere storie e a farle leggere nella convinzione che fossero tali, solo dopo mi è stato fatto notare che erano storie dell’orrore. Dicevo che non lo erano, per poi rendermi conto che era esattamente quello che stavo facendo.
Dalla pandemia sembra ci sia un grande ritorno alla letteratura di genere, in Italia e non. Ti devo però chiedere perché hai deciso di dare il tuo cuore all’orrore.
Quando ho cominciato a scrivere mi è stato detto: “nessuno compra più horror, è un genere morente”. Per me era però qualcosa di naturale. Ho sempre fatto incubi e ho sempre avuto una forte immaginazione, quindi non è una cosa che mi sento di aver deciso. Semplicemente è stato così.
Ti ho trovata molto libera dalle influenze. C’è sì un gran riconoscimento verso Stephen King, allo splatter di Clive Barker, ma soprattutto a uno scrittore qui in Italia ancora troppo poco conosciuto: Stephen Graham Jones. Per essere così libera immagino – come suggerisce Harlod Bloom – tu abbia dovuto uccidere i tuoi padri letterari. Ho scoperto tra l’altro che sei molto brava nel farlo, ma come è andata nello specifico?
Trovo che la tua domanda sia molto interessante. Effettivamente quando andavo a scuola, era una fase dell’America in cui si tendeva a screditare molta letteratura di genere, ma in generale molti autori – addirittura Bret Easton Ellis con il suo American Psycho – ed è una cosa che non ho mai capito fino in fondo. Io volevo provare a far parte di quel mondo e scoprire come avrebbero accolto nuove voci. Desideravo che Maeve fosse parte di quell’universo, ed è quello che ho tentato di fare, che spero di essere riuscita a fare scrivendo: unirmi a quel party, a quella festa, a quel divertimento.
Sei stata anche nominata al Premio Bram Stoker. Trattandosi del riconoscimento americano più importante per la tua letteratura, gli appassionati di genere lo guardano sempre con gran trasporto. Come è andata? Cosa ha significa essere lì al tuo esordio?
È pazzesco! Vi invito a venire a venire a questo evento. È pieno di scrittori horror e di case editrici, ed è proprio adatto per tutti gli appassionati del genere. La nomination è stata uno shock, ma comunque andrà sarà un’esperienza meravigliosa perché gli altri candidati sono amici cari, tutte persone a cui tengo molto. In ogni caso sarà una vittoria per tutti.
Nel libro ci sono alcune parti molto impressionanti e crude, mi sono chiesto se ci siano stati dei momenti in cui ti sei sentita in difficoltà. Come è stato dover scarnificare la propria narrazione?
È stato complicato, perché per leggere una scena quanto ci puoi mettere? Cinque minuti? Ma poi scriverla richiede settimane. Per cui a volte è stato orribile, le ho curate così tanto che mi sono ritrovata a bere whisky alle due di notte con le tapparelle chiuse. In altri casi invece è stato solo divertente. Dipende dalla scena, ma in generale è stato un processo molto complesso.
Questo blog si chiama un Un antidoto contro la solitudine, proprio la solitudine è forse il vero tema di tutto quanto il romanzo. Che rapporto avevi con essa prima di incontrare Maeve Fly e come è cambiato?
Oh, I love that! Ho avuto un rapporto sempre molto complesso con la solitudine nella misura in cui prima di Maeve ho subito dei lutti. Ero molto addolorata e sentivo di aver bisogno di gridare nel vuoto, di reprimere questa solitudine. Maeve mi ha permesso di farlo, ma in generale la solitudine è qualcosa che sta sempre lì, oscillante, è una presenza costante per molti scrittori, inoltre è parte integrante del processo creativo.
C’è qualcos’altro che ti ha insegnato Maeve?
Sì, probabilmente sì. La prima cosa è il rapporto con la rabbia: penso di non aver mai provato davvero rabbia nella mia vita prima di iniziare a scrivere questo libro, non sono mai stata una persona collerica. Maeve è stata un’occasione per scoprire questo lato di me ed esprimerlo, ma anche di visitare per la prima volta dopo tanto tempo un parco di divertimenti a tema. È una cosa che fa parte della cultura americana e l’ho riscoperto sempre grazie a lei.
Molto interessante la relazione tra i sogni e Hollywood, a come quei sogni nella città più sognante di qualsiasi immaginario possano diventare incubi. Cos’è diventata oggi questa parte di mondo, come Los Angeles influisce su di te e la tua scrittura?
Los Angeles è una città estremamente interessante, quella dei sogni infranti e di quelli realizzati. Ed è evidente che questo non può non avere un effetto sulla mia scrittura. Credo che la città influenzi sé stessa e le sue dinamiche. È una città che ha molte particolarità, per certi aspetti è magica, però è una delle tante città americane in cui ci sono forti problemi sociali. Come già detto: rimane un posto estremamente interessante, anche e soprattutto da un punto di vista letterario e compositivo.
Dopo aver letto la tua storia, sono stato colpito anche dai ringraziamenti, da quel modo di parlare in prima persona con chi ti è stato vicino durante questo lavoro, ma soprattutto alla cura verso i tuoi nuovi lettori. Parli proprio di un percorso che speri di fare insieme a loro. Mi hai riportato alla mente le introduzioni e le postfazioni scritte da King nei suoi primi libri. Mi vuoi parlare di questo rapporto, cosa ti aspetti da questo scambio, da questa nuova relazione?
Intanto alcuni dei miei lettori sono diventati veri e propri amici che ho avuto la fortuna di incontrare. Però la cosa più bella è che quando tu immetti dell’arte nel mondo, riesci in qualche modo a cambiare il mondo stesso. Soprattutto speri in qualche modo di trovare casa nel mondo, in quello delle persone che leggono, o comunque che fruiscono di quello che fai. Magari non avrai mai contatto con loro, magari avremo dei percorsi paralleli che non si intersecheranno mai, ma è bello il pensiero che in qualche modo si crei un contatto.
Da appassionato di lunga data dell’orrore, in luce delle pubblicazioni italiane non sempre di livello, quella di CJ Leede resta una proposta indirizzata verso coloro alla continua ricerca di nuove voci da aggiungere al loro corredo macabro, ma soprattutto verso coloro che sono finalmente pronti nell’affrontare la veridicità e l’urgenza di uno sguardo tanto femminile quanto assassino. Questione di occhi, ma soprattutto d’intenti, nell’attesa del suo prossimo libro.
Traduzione: Nicole Spallina
Autore: CJ Leede
Traduttore: Gaja Cenciarelli
Editore: Mercurio Books
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tag #Americana #California #Hollywood #Horror
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