Orazio Labbate: nei miei luoghi cerco l’essenza di Dio.
Dopo un acclamato esordio e un bestiario, ho approfittato di «Stelle Ossee» (LiberAria), il ritorno di Orazio Labbate, per approcciarmi finalmente a questo promettente scrittore siciliano di cui tanto avevo sentito parlare.
Diciassette racconti funerei ai quali mi sono approcciato con molto spaesamento, con la consapevolezza di trovarmi di fronte qualcosa di singolare, dalle molteplici influenze capaci però di rivelare una voce distinta.
In occasione della terza edizione del BookPride di Milano ho avuto modo di approfondire con l’autore alcuni aspetti legati ad alcune di queste storie.
Dal tuo esordio ti sei distinto con l’etichetta del Gotico Meridionale. Anche in Stelle Ossee possiamo ritrovare una serie di elementi riconducibili a questo spirito: dal confronto con l’essenza primordiale del mondo meridionale, alla continua ricerca della tradizione. Hai deciso però di ambientare la maggior parte di questi racconti in America. Come mai hai deciso di spostare in parte il tuo focus?
Innanzitutto l’obiettivo di questo libro è quello di cercare di rappresentare il mio macrocosmo nella dimensione di un microcosmo, poiché il racconto è un’isola a sé che esige nella sua brevità un’assunzione di responsabilità. Nella dimensione di un microcosmo, il mio macrocosmo è duale e si compone da quello della critica di fondazione del Gotico Siciliano che io voglio continuare a seguire, al quale si mischia territorialmente e linguisticamente anche quello del Southern Gothic. Ragion per cui voglio arrivare nello stesso libro all’incarnazione di due tipi di tematiche che io affronto nel mio modo di scrivere. I racconti chiaramente oscillano tra l’America e la Sicilia funebre del gotico siciliano ed è come se lì volessi dire che stiamo cercando di andare avanti affinché la lingua ampiamente si dimostri in maniera diversa rispetto a «Lo Scuru», il mio romanzo d’esordio, un capitolo a sé ma che spero avrà ampiezza e maggior respiro nel nuovo romanzo di prossima uscita per Tunué con il quale continuerà quest’epica. Stelle Ossee però, essendo un’isola a sé, racchiude sia l’America del Southern Gothic che la Sicilia con la sua lingua muta.
Qual è stata la sfida più grande del confrontarsi con questa lingua funebre?
La lingua funebre prevede un’applicazione linguistica esageratamente visionaria poiché il mondo sotterraneo non ci si presenta in maniera tattile, non lo abbiamo di fronte a noi, lo possiamo però esprimere con una lingua più densa possibile o più complessa.
Infatti mi è capitato di rileggere più volte questi racconti, principalmente per il loro sottotesto, per poi fermandomi davanti queste frasi che risultano le vere protagoniste. La sorpresa non arriva dagli avvenimenti quanto da tutto quello che la lingua crea. Mi chiedevo quindi quale fosse il vero obiettivo di questa lingua.
La mia lingua vuole eliminare un certo grado di densità, ma senza rinunciare al movimento allucinatorio che può creare l’andamento funebre di un racconto. È un flusso per me semplice e istintivo da usare quando voglio esprimere questa surrealtà, questa soprannaturalità in cui credo fortemente per le sue diverse basi e la sua attrazione sul cosmico, quindi a un vuoto cosmico anche Cioraniano ma anche duale dal punto di vista cattolico che mi riporta quindi allo schema inferico di Dio vs Satana.
Credo che ogni scrittore debba fare un atto di studio verso se stesso, debba studiarsi e capire dove migliorare, dove ampliare la sua lingua. Per me questa lingua che comincia a procedere in Stelle Ossee secondo questo tipo di brevità e asciuttezza ma non rinunciando alla potenza è la soluzione che piano piano cercherò di portare avanti con le nuove opere.
In molti di questi racconti brevi ho notato una sorta di comunicazione tra le diverse storie. Come se i vari personaggi di ogni racconto si parlassero indirettamente tra loro aspirando ad afferrare l’essenza di Dio. Tu sei riuscito ad afferrarla?
Per me carpire l’essenza di Dio è una cosa che nessun essere umano potrà mai raggiungere. Un compito casomai più consono per il vero mistico, il medium autentico, il santo o il martire (che sono due cose diverse).
L’essenza di Dio cerco di raccoglierla nei miei luoghi, quando in solitudine viaggio tra le strade della mia Butera a Gela e in quella solitudine del Mediterraneo e di quella Sicilia del Sud di cui tanto parlo, in qualche modo, Dio viene a manifestarsi. C’è una frase molto bella tratta da «Confessioni estatiche» di Martin Buber, dice che Dio non viene a manifestarsi quando invocandolo è più che altro chiamato a sè, ma quando siamo silenziosi nei luoghi in cui Dio può esprimersi con scintille e noi diventiamo taciturni. Io cerco di incontrarlo proprio li, sia nello schema periferico in cui Dio è un elemento di conflitto con il demonio e sia nello schema interiore, spirituale, davanti al mare e alla mia solitudine siciliana.
Il percorso letterario di Labbate è pensato, strutturato, così come la sua scrittura. C’è l’ambizione di un miglioramento, un’aspirazione all’oblio presente anche in questi racconti: quelli cronologicamente più lontani risultano meno incisivi, a favore delle storie più recenti, vere e proprie stelle di un firmamento ancora inesplorato.
Tutto è ancorato a un universo narrativo ben preciso di cui potremo scorgere nuovi aspetti nei prossimi anni. Un universo umano, con le sue sfaccettature, le sue peculiarità fatte della nostra oscurità, del suo rapporto con gli altri e con il mondo.
Tutto raccontato al buio, tutto raccontato attraverso le grandi domande della vita e alla credibilità che pochi riuscirebbero a sostenere addentrandosi nella penombra di questi generi.
Autore: Orazio Labbate
Editore: LiberAria
Collana: Penne
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