Camanchaca. Intervista a Diego Zúñiga
È nella mia famelica e trasversale esplorazione della letteratura latinoamericana che mi sono imbattuto in Diego Zúñiga. Classe ’87 inserito nella “Bogotà39”, la lista delle voci under quaranta più interessanti del Sud America. Mi bastarono una manciata di racconti letti in passato per farmi un’idea sulla qualità di questo autore cileno, questo lo ricordo bene.
Grande la sorpresa nel ritrovarlo tra le nuove proposte de La Nuova Frontiera di questo fine 2018.
Durante Più libri più libri, la fiera Nazionale della piccola e media editoria di Roma, ho avuto modo di partecipare a una colazione a base di Cile, memoria e origini. Accompagnato da Il tè tostato, Mangialibri e Doppiozero abbiamo parlato di «Camanchaca», un viaggio attraverso il deserto di Atacama verso i fantasmi e le verità nascoste di un ragazzo sovrappeso che si fa simbolo della storia di un paese.
Un pick-up, il deserto scorre fuori dal finestrino e i pensieri viaggiano in luoghi sempre diversi e non sempre riconoscibili. Apparteniamo a una geografia complessa e non tutti i luoghi del presente e del passato sono segnalati sulla cartina.
“Sono nato a Iquique, una città molto strana che sembrava dovesse sparire. C’è il mare e una montagna di terra che schiaccia ogni cosa ma un giorno l’acqua si mangerà tutto. Crescere in questa città che sai che un giorno sparirà ti rende molto cosciente del paesaggio che ti circonda.
Con il tempo mi sono reso conto che quando scrivo ho bisogno di mettere i personaggi in un luogo ben definito perché credo che il paesaggio possa determinare ogni persona in modo diverso. Quando vivi buona parte della tua infanzia in un posto, quello stesso posto ti marca e nel mio caso credo che la provincia cilena sia molto diversa da Santiago, dalla capitale. Quel marchio ti rende diverso anche nei modi con cui impari a interagire con le altre persone”.
Proprio durante una di queste colazioni, Paco Ignacio Taibo II disse che l’ispirazione non esiste, esistono esclusivamente le ore-culo, quei momenti in cui ti siedi e ti dedichi al tuo lavoro. Per la sua monumentale biografia su Guevara quelle ore-culo saranno state tante, forse troppe. E per Camanchaca?
“Non ricordo bene come è stato il processo di scrittura, sono però sicuro di averci messo quasi dieci anni ed è stato contemporaneamente breve e intenso. Camanchaca è un romanzo che si può leggere in modo frammentario, ma volendo avrebbe potuto essere lungo 400 pagine. Gli spazi bianchi che trovate tra le varie scene, dovete ricondurli proprio a un romanzo di 400 pagine in cui degli spazi sono stati cancellati.
Mi sembra un po’ esoterico ma c’è stato comunque un processo magico durante la scrittura di questo libro, negli altri libri che ho scritto ho impiegato sicuramente molte più ore-culo”.
Un romanzo di equilibri sottili, curato in ogni singola parola. Un lavoro di sottrazione che permette molteplici esperienze e livelli di lettura.
“Forse vi dovrei raccontare come scrivo…
Durante la scrittura del libro ero molto ossessionato con un’idea di letteratura molto contenuta, che suggerisce. Credevo in un lettore molto più intelligente di quanto non mi sentissi io. Credo sia questo un aspetto derivante dal mio essere anche un lettore di poesia e sento di aver saputo far mia quella capacità della poesia di condensare tanto in pochi versi.
Ecco perché ho creato un romanzo frammentario. Il mio desiderio era che il lettore potesse guardare e leggere ogni frammento come stesse guardando una foto. Questo vuol dire anche guardare con attenzione, guardare al testo come se fosse un’immagine talmente concentrata che sei portato a guardarla con minuziosità potendola quindi decifrare.
Ero molto ossessionato con questa tradizione americana della teoria dell’iceberg, cioè di raccontare tanto ma far vedere poco ma poi mi è passata.
Per questo ho utilizzato l’esergo di Richard Ford, per far capire questo. Tra i modelli c’è Carver, Rulfo è stato fondamentale, ma anche l’influenza del cinema argentino”.
Un esordio di quelli quasi ermetici nella loro finta semplicità che nasce in giovane età, da una sfida accettata e un impegno generazionale.
“Avevo 20-21 anni e mi chiamò un editore che aveva letto un mio racconto su un giornale. Mi disse che era rimasto colpito, chiedendomi se avessi pronto un romanzo nel cassetto da poter avere. Risposi di sì, ma il romanzo non c’era ancora, sapevo solo si sarebbe trattato di un viaggio di un padre e un figlio nel deserto ma ripeto, non c’era nulla se non il primo frammento di questo libro.
Mi sembrava una cosa strana perché erano anni in cui in Cile gli scrittori giovani non si pubblicavano, basti guardare ad Alberto Fuguet (classe ’64): in Cile è stato per vent’anni uno scrittore giovane.
Era il febbraio del 2009, dissi all’editore: dammi due mesi e ti mando una prima bozza. Una cosa che non farò mai più in vita mia, però alla fine avevo vent’anni…
Al tempo studiavo giornalismo, mi sono chiuso in casa e per due mesi non sono mai uscito per scrivere. Questa prima stesura di Camanchaca assomiglia molto a quella che leggete ora però c’erano alcune differenze che ora sembrano strane: come il fatto che il protagonista aveva una fidanzata, ma è evidentemente come il protagonista non possa averla. Sono stato fortunato perché una lettrice mi aiutò a levare quella figura e consegnai il manoscritto a maggio per sentirmi dire che il libro sarebbe stato pubblicato per la Fiera del Libro di Santiago che è a ottobre. È andata così, non ve lo raccomando però, a posteriori, è stato molto bello”.
Mi interessa il punto di vista di un autore giovane. Ho come l’impressione che guardando oggi il Sud America ci siano sempre più scrittori che abbiano sempre più uno sguardo cosmopolita. Questo per il Cile è molto più difficile perché è come se ci siano delle tematiche molto identitarie dalle quali non vi riuscite a liberare. Succede quindi per ragioni tematiche/identitarie e per un “problema” di sguardo?
“Il mio è un libro su qualcuno che non vuole raccontare, ed è un tratto molto comune della grande famiglia cilena.
È una cosa terribile. Ed è vero che noi cileni ci guardiamo molto dentro, abbiamo come uno sguardo che si rivolge sempre al nostro interno. Però è anche vero che in questo senso Roberto Bolaño ha aperto un po’ il mazzo di carte, ha aperto una strada. Credo però che questi cammini che sono stati aperti, gli scrittori non li stiano ancora percorrendo anche perché il peso della Storia è ancora troppo importante in Cile.
Anche il periodo della dittatura è ad esempio ancora vivo in alcuni dettagli della vita cilena e non è scomparso, ed è quindi molto difficile scrivere sul mio paese senza avere questo peso della Storia. A me in particolare sembra molto importante farsi carico di questo peso e di questa Storia perché le conseguenze della dittatura sono ancora vive nel sistema economico e sociale. Però hai ragione, a un certo punto dovremo finirla di scrivere di questa cosa qua. Quello che infatti scrive spesso la mia generazione sono delle storie ombelicali e la cosa può diventare anche molto noiosa. Mi piacciono più gli scrittori che si guardano fuori che non il loro ombelico”.
Camanchaca è soprattutto un libro di memoria, di ricordi, di verità taciute.
Ricordi che hanno condotto lo stesso Zúñiga a fare i conti con una memoria generazionale da dover romanzare. Lasciare quindi una traccia diventa l’obiettivo principale, anche se la dittatura non l’hai vissuta in prima persona, ma devi fare i conti con il suo peso in periodi di transizione e di forte spoliticizzazione.
Volendo semplificare il fenomeno del camanchacas, potremmo parlare di una serie di banchi di nebbia che dalla parte costiera si spostano fino al cuore del deserto cileno e non. Una coltre che copre tutto, compresi i ricordi.
Un libro difficile da afferrare, soprattutto dovessero mancare tutti quei riferimenti storici, fondamentali per guardare l’orizzonte di questo deserto.
Un libro però necessario per ricordarci come la polvere sotterri le ossa, il tempo i motivi della morte e la nebbia occulti i corpi di vecchi e bambini. Ai vivi il compito di sfrecciare su un pick-up con l’acceleratore premuto, senza coprirsi gli occhi e perdere di vista la meta.
Traduzione: Lorenzo Ribaldi
Autore: Diego Zuñiga
Traduttore: Federica Niola
Editore: La Nuova Frontiera
Collana: Liberamente
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