Fatima Bhutto: Credo che il romanzo sia un genere più compassionevole.

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Qualche anno fa, mi trovai tra le mani un libro sorprendente legato alla letteratura mediorientale contemporanea (per me all’epoca quasi sconosciuta), rimanendone abbastanza turbato.

«L’Ombra della luna crescente» di Fatima Bhutto (edito Cavallo Di Ferro) aveva saputo guidarmi nel Pakistan odierno, tra i suoi conflitti religiosi e la sua delicatissima condizione politica.

Il romanzo (uscito nel 2013) ha avuto poca diffusione in Italia, nonostante sia stato scritto da un’autrice coraggiosa diretta discendente di Ali Bhutto, l’ex-presidente del Pakistan assassinato in seguito a un colpo di Stato. Vi ripropongo qui una breve recensione e di seguito la chiacchierata che Fatima Bhutto mi ha concesso.


«L’Ombra della luna crescente» è un libro che credo nasca da un percorso compositivo abbastanza lungo. Perché l’esigenza di scrivere un romanzo dopo il saggio «Canzoni di sangue. Ricordi di una figlia»? Qual è stato il più difficile da scrivere?

Ho sempre amato i romanzi e ho iniziato a scrivere «L’Ombra della luna crescente» prima che «Canzoni di sangue. Ricordi di una figlia» (Garzanti) fosse pubblicato. È stato molto più difficile che scrivere un saggio, quasi come imparare una nuova lingua perché le regole sono diverse, così come la struttura e il modo in cui segui i tuoi personaggi. È stato anche molto liberatorio. Credo che il romanzo sia un genere più compassionevole.

La struttura narrativa che usa è molto vicina al genere del thriller. Il lettore è curioso di sapere quali siano gli eventi successivi mentre lei, senza curarsi del tempo, inserisce tematiche molto delicate. Come mai questa scelta?

Ho pensato molto al tempo durante la scrittura. Il tempo nel nostro paese scorre in maniera differente rispetto al mondo occidentale, è un continuo dipanarsi, è un viaggio.

In questo libro i personaggi fanno scelte molto difficili. Aman Erum, Sikandar e Hayat, i tre fratelli che racconta prendono strade diverse. Mi chiedo cosa li unisca oltre il sangue.

L’ombra di vivere in un paese segnato dalla violenza e dalla paura. Tutti sono marchiati, nessuno è libero dal pregiudizio. Non penso che la paura sia così importante nei personaggi, perché siamo spaventati, è un sentimento umano, primordiale. È come rispondiamo alla paura, come la osserviamo, che ci fa segnare in qualche modo.

Anche le radici sono molto importanti, queste possono essere tramandate o estirpate. Quanto hanno inciso le sue durante la stesura?

Influiscono sul tipo di persone sulle quali sono curiosa di scrivere, coloro le cui voci non sono ascoltate, coloro che vivono nelle periferie: i deboli…

Le figure femminili rappresentano a mio avviso una delle chiavi del suo libro. Sono figure coraggiose e decise, sono quelle che permettono il cambiamento. Come mai questo compito spetta proprio alle donne?

Perché questo è quello che sono le donne nell’Asia meridionale – sono guerriere. Combattono contro enormi problemi, senza nessuna protezione, né dalla legge né dello Stato e spesso neppure dalle loro comunità, ma lo fanno con un grande senso di appartenenza, di giustizia, di armonia. Ma al di fuori dell’Asia si vede una sola immagine delle donne dalla nostra parte del mondo – donne deboli, sottomesse, oppresse. Noi non parliamo di coraggio, compassione, del dover lottare continuamente contro l’ingiustizia. Penso però che sia giunto il momento di iniziare.

Uno dei suoi personaggi ad un certo punto decide di allontanarsi dalla sua terra. C’è un distacco drastico e mi chiedo quanto possa essere positivo per la tradizione, le radici e la formazione di ogni singolo individuo.

Questo allontanamento non può essere giudicato da nessuno se non dagli stessi individui. Credo che le frontiere nel mondo iperconnesso di oggi sono assurde, non hanno senso. Perché limitiamo il fluire di persone, idee e culture? L’appartenenza è qualcosa con cui tutti i miei personaggi lottano. Alcuni interpretano l’appartenenza come radici, altri hanno l’appartenenza della memoria, del cuore e penso che ognuno debba scegliere che tipo di appartenenza ricercare.

Queste decisioni, la politica e la violenza sono caratterizzate da una costante comune: l’estremismo. Quanto può essere dannoso questo fenomeno?

È molto dannoso. Qualsiasi idea rigida lo è. Qualsiasi convinzione che escluda invece di incoraggiare i legami con gli altri è destinata ad essere estremamente dannosa.

Quali sono le penne che l’hanno ispirata come giovane autrice pakistana? Gli autori che sono diventati dei maestri per lei.

Damon Galgut, Hector Abad, Joan Didion sono i miei preferiti. Ma ho imparato da tutto quello che ho letto, è la bellezza dei libri. Amo moltissimo anche i poeti – Agha Shahid Ali e Nizar Qabbani in particolare.

La paura ci accompagna per tutto il libro. Qual è la sua?

Dipende dal momento. In questi giorni ho molta paura per il Pakistan e per la direzione che sta prendendo…

Autore: Fatima Bhutto
Editore: Cavallo di Ferro
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