Guillem López: È cambiata la nostra visione del mondo e la letteratura deve rispettarla.

Due anni fa avevo incontrato e conosciuto Guillem López, un autore difficile da etichettare. Questo lo avevo capito subito, sicuramente osservandolo durante una colazione organizzata in occasione della 30esima edizione del Salone del Libro di Torino, ma ancora prima leggendo il suo «Challenger», il primo libro proposto ai lettori italiani da Eris Edizioni.

Da Challenger siamo passati a «Ventuno», López ha avuto modo di farsi conoscere e chi lo ha letto, compreso il sottoscritto, aspettava con ansia di poterlo rincontrare sia tra le pagine che dal vivo. Così infatti è successo a BookPride 2019.

Esce in anteprima «Ventuno» e ne approfitto per fare un discorso più ampio con uno di quegli autori a cui i confini vanno stretti. Questa volta pare si sia spinto verso quel pozzo nel quale un destino cerca di sottrarsi alla sua sorte apparentemente già scritta.


Ti ho conosciuto con Challenger, potrei dire di averti conosciuto con il cielo. Con Ventuno siamo passati da quel cielo al sottosuolo. Cosa è successo nel mentre?

Buona domanda, è successa una cosa molto grande, molto importante. Tra la scrittura di Challenger e quella di Ventuno, sono diventato padre.
Avevo iniziato a scrivere un altro libro che non era questo ma che aveva la stessa idea di base, quella del pozzo per l’esattezza. Stavo quindi lavorando a un romanzo sotterraneo, lo scenario era esattamente lo stesso e quest’idea è sorta con tanta forza che ho dovuto scriverla: ho dovuto lasciare il progetto precedente e mi sono dovuto buttare su questo. L’altro era un progetto molto più simile a Challenger, una sorta di fantasia urbana molto vicina.

Ventuno, rispetto a Challenger, è un romanzo molto diverso ma in certi punti molto simile. Anche questo, soprattutto quando lo si legge, è un libro esplosivo, è un romanzo breve, intenso e non ha nulla a che vedere con la paternità perché l’unica cosa che accomuna la paternità ai due progetti è stato l’aver deciso di mollare un lavoro per dedicarmi ad altro. Quella necessità mi ha fatto iniziare questa storia nonostante avessi già fatto un word building per l’altro romanzo che poi è diventato una serie di racconti che ho pubblicato in Spagna su riviste.

Una differenza netta rispetto a Challenger però c’è, ed è quella degli spazi. Penso ad alcuni spazi chiusi e al rapporto che hanno con i personaggi di Challenger. Dalla biblioteca, a una qualsiasi stanza descritta, quando c’era una situazione di pericolo, i tuoi protagonisti uscivano fuori da quei contesti pericolosi, avevano un’alternativa. Qui sotto, con Ventuno, no.

Questa è una buonissima lettura perché se guardiamo tutto da un punto di vista ontologico possiamo fare una distinzione rispetto una visione mistica. Se guardiamo Challenger ha la mistica dell’ascensione ma ce l’ha anche il pozzo, questo mondo sotterraneo descritto in Ventuno. Questo potrebbe essere il filo conduttore che unisce questi due romanzi diversissimi tra di loro, in realtà non ci avevo mai pensato fino a quando non me l’hai fatto notare: c’è questa idea di ascesa verso un punto.

Quindi se in Ventuno quella fuga non è possibile, rimane comunque l’idea, in Challenger invece, è probabile, è possibile, ma anche in quel caso non è realmente concretizzata. Quindi potrebbe essere anche questo il topos della mia scrittura, adesso che ci penso potrebbe essere che questo topos della fuga si ripeta in altri miei libri.

L’anno scorso, per esempio, ho pubblicato un libro che è in definitiva un prequel di Ventuno e anche lì si parla di fuga. Oppure in «Ragni di Marte» si parla di una perdita, ma anche in quel caso ci sono delle fughe, diverse fughe. Quindi potrei convincermi sempre più che questo possa essere un filo conduttore della mia scrittura.

In un altro filo conduttore tra i tuoi libri è questa tua attenzione nei confronti degli ultimi. La maggior parte dei tuoi personaggi appartengono a questa categoria. Qual è quindi la tua relazione con gli emarginati?

Perché mi piacciono gli emarginati? Perché io stesso lo sono e lo sono stato. Mi definisco e mi definivo un nerd degli anni ’80, quando essere nerd non era per niente simpatico e divertente e venivi anche bullizzato. Adesso è mainstream – ci fanno film e serie televisive – però esserlo davvero non lo è in realtà.

Faccio parte di questa categoria di inetti, di inadatti a vivere e quindi descrivo il mondo di questi personaggi perché da una parte mi sento identificato con loro e dall’altra credo che nei margini, ai confini della realtà (come la serie per l’appunto) c’è quello che è più interessante, perché è proprio il punto dove si insinua l’elemento fantastico. Lo si vedeva soprattutto in Challenger dove in un mondo normale, tra gli interstizi di quella normalità, sorgeva il fantastico.
Il mio non è quindi una sorta di realismo magico, è più una sorta di realismo fantastico, di weird alla Mark Fisher. Mi interessa questo mondo e credo che ci siano molte più possibilità nei posti di frontiera, di confine, rispetto al centro della realtà.

Da Challenger a Ventuno cambia anche la natura. Nel primo ho pensato molto a questa realtà di cui parli e al suo rapporto con la natura. Qui nel pozzo di Ventuno c’è invece una meccanizzazione, parliamo anche di innesti. Le persone tendono in entrambi i casi – in maniera più o meno esplicita – a una dimensione artificiale.
Alla fine mi sono detto che pensare a López significa pensare a un uomo artificiale.

Sicuramente sento l’influenza di Cronenberg, quella relativa al corpo vissuto come un campo di battaglia. È nel pozzo di Ventuno, in questo ambiente, che l’individualismo e la religione del Dio della meccanica hanno portato i personaggi a non avere più la libertà, soprattutto quella di disporre del proprio corpo e di farne anche un campo di battaglia, decidendo come agire su di esso.

Il corpo viene sottomesso all’utilità, il corpo deve servire al lavoro, alla produzione. Le modificazioni corporali sono quindi viste come la rappresentazione della perdita della decisione sulla nostra persona e di riflesso il nostro corpo non viene più usato come un mezzo per la lotta sociale e questo è quello che fa anche la religione, perché la religione del Dio della meccanica non aspetta altro che rubarci tutto. Togliendoti il libero arbitrio sul tuo corpo, non puoi decidere di fare quello che vuoi, ed è quello che fa invece Ventuno: decide di non farsi fare queste modifiche corporali proprio per poter essere ancora libero e poter avere potere su se stesso.

Anche tu hai fatto la tua scelta, hai deciso di essere un autore di genere. Ti si può definire tale?

Sì, sono uno scrittore di genere e lo dico con orgoglio. In realtà quello che faccio io è giocare con le frontiere, con i confini tra i generi. Ho iniziato come scrittore di fantasy più puro ma anche in quel caso cominciavo a mescolare i generi. Adesso posso permettermi di giocare molto di più, di spaziare, di mettere insieme molti aspetti dei vari generi.

Mi prendo sia il buono sia il brutto di essere uno scrittore di genere. Quello che sta succedendo adesso è che le frontiere tra i generi si stanno naturalmente diluendo contaminandosi sempre più. Ventuno, ad esempio, è un grande miscuglio di romanzo noir, di weird, horror, c’è qualche aspetto del romanzo sociale e le influenze sono tantissime perché tutti noi scrittori abbiamo delle influenze molto varie da ambiti molto diversi, dai videogiochi alle serie tv e c’è molto di questo da dover tener presente.

Quindi sì, sono uno scrittore di genere ma sono molto diverso rispetto a quella che poteva essere questa definizione venti anni fa. Forse vent’anni fa, quando era tutto a compartimenti stagni, non avrei detto la stessa cosa. Adesso abbiamo un’enorme libertà creativa, si può fare della fantascienza hard come Cixin Liu oppure fantasy puro che però magari non è esattamente tale perché è immerso tra mille influenze e quindi, da qualunque punto la si voglia guardare, abbiamo vinto noi!

Molti non tendono a classificarsi con questa etichetta, tu la indossi con orgoglio. Negli ultimi anni i più che hanno rifiutato questa collocazione, soprattutto alcuni autori insospettabili, si stanno sempre più affidando al genere. Basti pensare al momento del post-apocalittico (camuffato da postmodernismo) che sta attraversando da anni la letteratura americana. Perché il genere sta raccontando sempre di più questa contemporaneità?

In Spagna sta succedendo la stessa cosa, credo sia un fenomeno a livello mondiale. La narrativa generalista sta prendendo elementi della letteratura di genere, la distopia in primis perché è quella che più viene accettata socialmente, probabilmente è quella che ha attecchito e si è diffusa meglio. Ad esempio un narratore contemporaneo generalista come Paul Auster oggi sta facendo fantascienza, ma così come l’ultimo DeLillo con il suo Zero K.

Credo che oggi il realismo si sia già reso conto da tempo che non assolve più al compito per cui era stato inventato e utilizzato, cioè quello di spiegare il mondo. Non si può prescindere dall’elemento fantastico per spiegare la nostra contemporaneità e noi tutti all’interno di questa. Abbiamo bisogno dell’elemento fantastico anche come canale di denuncia del nostro presente e credo che sia appunto un passaggio logico della narrativa contemporanea. È cambiata la nostra visione del mondo e la letteratura deve rispettarla.


Ventuno è l’ennesima prova di come questo, nonostante la sua forma ibrida, sia un discorso coerente. Una letteratura che scava le profondità per toccare l’inferno contemporaneo, quello tutto privato dell’uomo e delle sue molteplici forme.

«Ha forse importanza?» disse.
«Certo. Per me che sono chi sono e vengo da dove vengo» (…).
«Sono dettagli importanti. Non è bello farsi trasportare dalla fantasia in questioni così serie.»

O forse è necessario, oggi così maledettamente necessario.

Traduzione: Francesca Bianchi

Su López:

Autore: Guillem López
Traduttore: Francesca Bianchi
Editore: Eris Edizioni
Collana: Atropo
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tag #Horror #Spagna

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