Il sentimento come forma di conoscenza. Intervista a Pablo Simonetti
Pablo Simonetti l’ho incontrato all’ultimo Salone del Libro di Torino dopo aver letto «Vite Vulnerabili», il suo sorprendente esordio pubblicato Edizioni Lindau.
Sono passati diversi mesi e su quel confronto ho avuto modo di ritornarci, così come su ogni singola storia che compone la sua raccolta di racconti. Ci va pazienza, cura e voglia di mettersi in gioco quando i temi sono delicati e la letteratura diventa lo strumento per andare oltre.
Mesi nei quali sono stato invaso da quella vulnerabilità di cui avevo letto ma che oggi, solo al sentire il suono di quella parola, mi riporta con il pensiero a quell’altissimo ed elegante autore cileno con il quale ho parlato di influenze, sentimenti e legittimità.
Prima ancora di leggere Vite vulnerabili sono stato attirato dall’endorsement di Roberto Bolaño. Vorrei partire da questo dettaglio e ti chiedo come si possa esordire con il supporto di quello che si rivelerà essere un monolite così insormontabile per la letteratura ispanoamericana e non.
Nel 1998, dopo venticinque anni, Roberto Bolaño tornò per la prima volta in Cile per partecipare come giurato del Premio Paula, che l’anno precedente avevo avuto l’onore di vincere. Durante il nostro incontro siamo andati a cena insieme e siamo stati presi -come si dice in Cile- dalla buena honda, entrando da subito in sintonia. Quando ci siamo lasciati abbiamo poi instaurato un rapporto epistolare fatto di cartoline, non di quelle comuni ma, in generale, erano vere e proprie opere d’arte. Lui mi mandava queste cartoline raffiguranti le opere di Joachim Patinir, un pittore fiammingo esposto nella sala di Bosco presso il Museo del Prado a Madrid. Insomma, c’era un rapporto fatto di questa corrispondenza di cartoline che lui mandava a me e che io mandavo a lui e, attraverso una di queste, chiesi a Bolaño di presentarmi siccome il mio editore voleva pubblicare il mio primo libro. Lui mi chiese di fargli leggere un racconto in modo da potermi dare un parere onesto. Gliene mandai uno, gli piacque e disse: ”lo presento io questo libro”.
La presentazione coincise con il suo ritorno in Cile, in occasione della fiera del libro cilena, l’anno in cui vinse il Premio Rómulo Gallegos e ottenne un riconoscimento mondiale enorme. Era ancora un autore nuovo, inedito, da scoprire ancora per gli stessi cileni, nonostante in quel momento avesse già scritto Stella distante e Le chiamate telefoniche. Io ho iniziato a leggerlo nel’97 e ne lessi fino alla Letteratura nazista in America. Quella del nostro secondo incontro è una storia ancor più lunga perché in quel viaggio lui fece delle dichiarazioni molto scomode e accese rispetto alla letteratura cilena e fu in mezzo a tutto questo che presentò il mio libro. Tornò in Spagna abbastanza arrabbiato perché le reazioni furono importanti e rumorose poiché lui criticò alcuni autori canonici.
La tua è una visione di una letteratura atta a portare il lettore verso temi ben precisi, soprattutto in un paese difficile come il Cile. Una letteratura che potrebbe essere vista come un vero e proprio impegno etico-politico. Questa è stata da sempre la tua intenzione principale?
In realtà no, la mia idea è sempre stata definita dalle mie origini letterarie: ero, come persona e come autore, in un luogo diverso e, in un certo modo, in uno stato opposto alla società, perciò in Vite Vulnerabili appaiono naturalmente questi temi ma non fu una mia volontà politica, la mia volontà politica apparve più tardi. Semplicemente capitò, ne avevo già scritto nel mio esordio, Madre que estás en los cielos e La ragione degli amanti (Corbaccio) quando la situazione politica in Cile cambiò drasticamente e mi portò a schierarmi, per andare avanti e a scendere in campo assumendo una voce politica relativa alla diversità di genere.
Io ci vedo un attivismo sotterraneo.
Io credo che ogni letteratura meriti che ci sia un attivismo sotterraneo: non c’è letteratura senza nessuna dimensione politica. Credo che generalmente si veda la lettura in base a stile, trama e personaggi ma c’è anche una terza dimensione politica. La letteratura senza una dimensione politica è considerabile -in un certo modo- vuota e questo già lo diceva Barthes. La dimensione politica, come lo stile, è la parte più personale perché nasce da ciò che sei e Barthes lo interpreta come il fiorire personale di uno scrittore: il fiore della personalità è lo stile. La personalità attiva, siccome stiamo parlando di attivismo è la dimensione politica. Questa politica non corrisponde a quella contingente, totalmente variabile e difficile da leggere, ma risponde a una lunghezza d’onda maggiore rispetto a quelle che uno può cogliere. Per esempio: quando ho pubblicato Vite Vulnerabili questi temi non erano al centro del dibattito culturale come lo furono successivamente.
Nella tradizione cilena c’è sempre un’attenzione politica verso la sua storia. La tua invece, sembra più di altre, una politica dei sentimenti. Come mai, a differenza degli scrittori tuoi connazionali, non hai questa esigenza di rapportarti con un passato così pesante dovuto al vostro trascorso?
Appartengo alla “generazione del millennio”, la generazione letteraria del 2000 che, se analizzata, presenta molte più donne e molti più autori gay. Le tematiche riguardano l’incontro tra il particolare e ciò che è imposto dalla società, l’idea a priori del cittadino -di ciò che si suppone debba essere- da cui noi vogliamo liberarci, ma questo racconto è soprattutto qualcosa di particolare e personale, è il mio raffronto con l’idea di legittimo. Ci sono molte persone qui che si sentono illegittime o sono viste come illegittime o si trovano in un luogo dove probabilmente sono state messe in questa posizione dagli altri e quindi considerate tali.
Ciò che mostra questo, come emerge dalle mie opere, è la crudeltà dello stabilire ciò che è invece legittimo ed è come se coloro che rimangono fuori da questo confine fossero esposti sempre a questa specie di esplosione che li colpisce. Ci sono alcuni personaggi che si incontrano con il proprio sé e si scontrano con la propria illegittimità che fino ad allora non hanno voluto affrontare, dall’altra parte ci sono personaggi che quel confronto lo sbattono loro in faccia, quasi costringendoli, come a tirar fuori gli scheletri dall’armadio. Credo che questa sia una delle idee matrici del libro.
Tra le mie pagine c’è anche un’idea di genere sulla donna, la sua liberazione e anche la liberazione degli uomini dalle loro catene patriarcali. Non c’è solo un genere dal punto di vista femminile ma anche da un punto di vista maschile e questa è una caratteristica molto propria della mia generazione.
Parliamo di sentimenti, di vulnerabilità, di uomini e donne che si sentono persi e non trovano la loro strada e quando la trovano non è sempre una strada positiva.
Positiva o negativa che sia, viene troppo spesso considerata non legittima.
Che tu ti metta nei panni di qualsiasi genere qual è, se c’è, il processo per raccontare in maniera così vivida e sincera questi sentimenti?
Ci sono studiosi che con i loro saggi hanno trattato il tema facendo un’analisi molto dettagliata rispetto tutti i punti a me cari, sicuramente loro sanno più di me rispetto quello che faccio come scrittore. C’è tutto un processo ben preciso ma, secondo me, l’importante è restare fedeli alla percezione più intensa dell’essere umano che è una percezione che spesso interpretiamo come un rumore a cui non prestiamo attenzione: se uno non presta attenzione non si rende conto che li c’è un rumore. È una chiave di lettura del mondo. Ciò di cui ci stiamo costantemente convincendo è un’idea di luogo, dei sentimenti che proviamo in relazione all’altro. C’è sempre un’analisi profonda dell’altro di come ci stiamo proponendo e di come lui reagisce alla nostra identità, perché ciò che è legittimo e l’identità sono due facce della stessa medaglia.
Prima c’era l’identità illegittima e ciò per cui abbiamo lottato in questi ultimi quarant’anni è che questo volga al termine, che si venga accettati tutti per ciò che siamo e non per ciò che altri vogliono che siamo. Questo vuol dire prestare un’attenzione specifica e profonda al fatto che – in un certo senso- siamo dentro un personaggio quasi letterario e non dobbiamo svalutare ciò che è il sentimentale, come se questo fosse necessariamente una storia amorosa o un romanzo rosa, ma viverlo piuttosto come una guida: il sentimento come forma di conoscenza.
I tuoi racconti si muovono su uno sfondo camaleontico, ti piace servirti delle più diverse ambientazioni che danno addirittura un respiro classico ad alcune di queste storie. Seguendo questo tuo estro mutevole in cosa si dovrebbe riconoscere il tuo tratto cileno?
Guarda è difficile fare questo tipo di genealogia magari io ho semplicemente una genealogia letteraria stratificata. Da giovane ho frequentato un corso di scrittura con Gonzalo Contreras, lui, a sua volta, seguì un corso di letteratura con José Donoso e tutto viene collegato dallo stesso fil rouge.
Per seguire questo filo dobbiamo quindi definire la vulnerabilità come un qualcosa di universale.
Sì, io credo che da un lato questo senso di educazione intensiva del sentimento io l’abbia ricevuta da questi autori che ti ho citato ed è qualcosa che in Cile funziona abbastanza in campo letterario, anche più del romanzo giallo, di quello rosa o altri tipi di generi letterari
La letteratura si focalizza quasi sempre sull’autoanalisi dei personaggi. Definirei Donoso il successore di Henry James, io ho trovato in lui qualcosa di James, di Tolstoj, della stessa Jane Austen o Edith Wharton, tutto questo mondo di scrittori uniti in una voce. Io ho una genealogia cilena definibile molto anglofona e nel mondo anglofilo ci sono due filoni: il romanzo di costume che da poi dà origine a questo tipo di percorso di autoanalisi e poi c’è quest’altro filone di romanzo che è quello più incentrato sulla trama come il romanzo poliziesco o di genere.
Appartengo dunque ad una linea cilena anglofila che, a sua volta, corrisponde a un tipo di romanzo inglese o meglio, di lingua inglese, ma dall’altro lato ci sono miei interessi molto personali qui rappresentati, come ci siamo detti, dal tema dell’identità e dell’illegittimità. Ho sempre pensato che rendendo particolare e personale la letteratura, la si renda più universale, perciò sì, questa è una storia molto cilena -c’è un personaggio italiano mentre tutti gli altri sono cileni – e l’intento del racconto è una mia personale preoccupazione nel senso che appare proprio questa eredità italiana presente anche in altri autori cileni, ma a farla così personale si rivela poi universale. Tutti gli autori sono tremendamente se stessi, così come le proprie trame, perché in fondo quanto riesci a comunicare di te, ci si limita a questo luogo di non appartenenza che è il luogo comune. Quando si lascia molto spazio vuoto in un romanzo e non lo si riempie con le proprie sensibilità il lettore lo riempie con i luoghi comuni, perciò c’è chiaramente chi lo riempie e chi va a interrogarlo. Se tu crei realmente un mondo davanti agli occhi del lettore puoi comunicare con lettori di qualunque parte del mondo e di qualunque tempo, questa è la grande letteratura.
Ho ripensato a Witold Gombrowicz quando nel suo Testamento disse: “Sono nemico del comunismo solo perché sto dalla parte del proletariato”. Questo perché mi sembra l’atteggiamento giusto per ogni scrittore, soprattutto per quelli così decisi e autorevoli. Qui Pablo Simonetti diviene l’esempio dell’autore schierato oltre ogni politica, in favore di un sentimento più alto. Lui è nemico della storia collettiva solo perché sta dalla parte della storia privata di ognuno di noi e, tra il legittimo e il non legittimo, ha scelto la lotta dei sentimenti, il sentimento come conoscenza.
Traduzione: Yassmina Dhouaieb
Autore: Pablo Simonetti
Editore: Edizioni Lindau
Collana: Senza Frontiere
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tag #Cile #LGBT
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