Judith Hermann: Il minimalismo è il mio modo di scrivere.
Dopo anni di presentazioni e chiacchiere con gli autori più disparati, non mi ci vuole troppo tempo per avere un’idea quanto più precisa del tipo di scrittore che ho davanti. Sono veramente pochi i casi in cui tornando a casa sono avvolto dal dubbio, non sapendo se voler approfondire la nuova conoscenza o dare spazio a una voce più vicino al mio gusto.
Qualche mese fa, alla Libreria Trebisonda di Torino, ho incontrato Judith Hermann per la presentazione de «L’amore all’inizio». Un’autrice tedesca pubblicata da L’Orma, l’editore romano grazie al quale negli anni sto recuperando le mie evidenti lacune in quanto a letteratura francese e tedesca.
Questo è stato uno dei casi in cui dopo poche frasi non ho avuto dubbi sul da farsi. Mi sono informato e l’ho fatto soprattutto dopo questa chiacchierata, dopo esser stato colpito da una voce così affilata e raffinata.
La Hermann, classe ’70, nasce con l’idea del giornalismo in quella Germania del muro dalla quale presto andrà via, verso gli Stati Uniti, una delle patrie delle short stories, il racconto breve che contagerà Judith e rafforzerà l’intenzione di dedicarsi a quella “pratica” della Letteratura.
Dopo un riconoscimento su scala mondiale e diversi premi vinti, dopo aver pubblicato svariate raccolte di racconti (alcune di queste pubblicate anche in Italia da Socrates) arriva il passaggio alla forma più lunga.
La storia potrebbe essere riassunta come una vicenda di stalking tra le case di un ridente quartiere, uno di quelli comuni da immaginario cinematografico che, in questo caso, diverrà il centro di ossessioni e tensioni.
Sei passata dalla forma breve a quella più distesa. Sei partita dal racconto che si caratterizza per il dover condensare tutto in poche pagine, da una forma in cui tutto deve infatti brillare in pochissimo tempo. Mi chiedevo se con la forma lunga c’è stata una difficoltà nel tenere sullo stesso piano la tensione emozionale che pervade queste pagine.
Non è stato facile in effetti. Raymond Carver diceva che i racconti sono fast-in/fast-out, entri veloce ed esci altrettanto veloce. Anche se in ogni short story succede sempre molto, entri e già in qualche modo vedi il segnale d’uscita.
Ci entri dopo aver preso una rincorsa, ti prendi il cuore in mano e ci entri.
In questo lavoro ho ragionato per brevi capitoli, non come se ogni capitolo fosse un racconto a sé, ma con l’idea di arrivare a una fine che restasse sospesa. Ho sempre avuto in testa la parola cliffhanger, come quando ad esempio nel romanzo d’appendice resti sul filo e vuoi andare avanti. Passavo quindi di capitolo in capitolo per raccontare profondamente la psicologia tra Stella e Mr. Pfister, la protagonista e quest’uomo così complesso. Poi c’è un momento – sembra sempre una cosa esoterica ma vera sia per i racconti che per i romanzi – in cui la storia si prende per mano e si racconta da sé e il dovere di uno scrittore è accorgersi di questa svolta e seguirla.
Raccontare questa storia è rimasta un’eccitazione emotiva continua nel tempo. Scrivendo racconti solitamente riesco a tirarmi fuori molto prima da tutto questo e forse, a differenza delle esperienze precedenti, in quei sei-otto mesi di scrittura di questa storia ho dovuto vivermi questo innamoramento per testimoniarlo razionalmente e portarmelo dietro.
La tua è una scrittura molto minimalista. Mi chiedevo quindi come fosse questo rapporto tra tensione emotiva e questa forma scarna. Come fa la tensione emotiva, una cosa così ricca, a convivere con la scrittura minimalista sulla quale si lavora per sottrazione?
Questo minimalismo arriva da Carver e da questa idea di scrivere – come diceva lui – sotto la superficie delle cose. Non voglio mai dire le cose direttamente, ma voglio che si senta tutto sotto quella superficie. Alla fine è come costruire una struttura usando le carte da gioco e, per ogni versione che scrivo, levarne alcune o una sola fino a fermarsi prima di prendere quella carta che farebbe crollare tutto. Quello che voglio fare è mostrare le cose e allo stesso tempo nasconderle sempre, un equilibrio difficile ma è anche il mio modo psicanalitico di scrivere.
Il tema di questo libro è forse un buon tema per questo genere di desiderio, quello di mostrare e al contempo nascondere. Stella in uno dei passaggi chiave del libro riceve una scatola e, ovviamente, questa scatola è vuota e la dovrà riempire lei di cose inesistenti. Il riempirla ne determina l’esistenza, della scatola e di tutte quelle cose che verranno riposte al suo interno.
Più in generale:
La tua protagonista vive quasi da estranea in un contesto sociale in cui sembra non esserci comunicazione tra persone, anche tra le più vicine. Dentro e fuori si vive nella solitudine del nostro io e, nonostante il suo mestiere la porti nelle case delle persone anziane che sono rimaste sole, sembra difficile trovare un’apertura nei confronti dell’altro.
Siamo tutti dei singoli, anche io e te in questo momento e la trovo una cosa molto naturale. Il libro racconta di personaggi isolati ma ci sono molti incontri in cui Stella percepisce molta tenerezza e anche molta comunicazione. Magari poi questa non è verbale, non è così esplicita, non ci sono le grandi chiacchierate, non c’è questa direzione ma non è un giudizio morale sulla società o sul mondo.
A me interessano semplicemente queste genere di persone: i timidi, figure per cui provo qualcosa che mi spinge a raccontarle. Tutto dipende anche da cosa conta in un rapporto e cos’è la comunicazione in un rapporto e cosa non lo è. Viviamo, soprattutto nelle grandi società, in città in cui si vive molto insieme e vicini senza poi conoscersi veramente, ma non è detto che poi sia un male, almeno la mia protagonista non ne soffre particolarmente.
Appurato che i tuoi timidi sono quelli che si nascondono e con il tuo minimalismo li racconti sotto la superficie delle cose. A questo punto mi chiedo se c’è stato un aspetto che si è nascosto durante la scrittura e poi, comparendo, ti ha sorpresa.
Sì, anche se è molto difficile spiegarlo. Ci sono sicuramente tanti piccoli dettagli: dalle riflessioni ai momenti di consapevolezza verso i personaggi, sulle persone che prima non conoscevo e che dopo averle scritte in qualche modo ho imparato a conoscere almeno in qualche aspetto. Tutto questo non è tanto visibile, ma questo è un libro in cui – anche se si vede poco – c’è un movimento: ed è la storia di una donna che va, che si muove e questo non mi era inizialmente chiaro.
All’inizio del romanzo c’è una frase che è molto importante che non so se capisco fino in fondo ancora oggi, ed è una frase che dice appunto:
Mi sembra importante, un aspetto sul quale devo continuare a riflettere. Anche io mantengo qualcosa di nascosto, te lo assicuro.
Le certezze vacillino, così come la strada che porta alla realizzazione dei nostri sogni, del sogno di essere veramente abbracciati da chi amiamo.
Judith Hermann si inserisce nelle intersezioni delle felicità aspirate, tra quelle svolte che necessitano il coraggio del cambiamento.
Ho più volte pensato durante la lettura alla perfezione di questa scrittura, a come lo scarnificare sia riuscito a tirare fuori l’osso, le parti nascoste che siano queste le ossessioni o le bugie del quotidiano.
Il campanello suona nuovamente, dietro la finestra gli occhi che ci spiano, dentro la nostra testa il buio, la paura. La luna a illuminarci, quella dell’amore, all’inizio o alla fine poco importa.
Traduzione: Marco Federici Solari
Autore: Judith Hermann
Traduttore: Teresa Ciuffoletti
Editore: L’orma Editore
Collana: Kreuzville
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