Matthias Nawrat: Mi sento un fratello di Gombrowicz.

Matthias nawrat imprenditori

Era Lev Tolstoj che scriveva di come tutte le famiglie felici si assomigliassero fra loro e di come ogni famiglia infelice fosse poi infelice a modo suo. Lui però, a differenza di Matthias Nawrat, era molto lontano dal concetto contemporaneo di famiglia imprenditoriale.

Forse lo ero anche io e solo dopo aver letto Imprenditori (edito L’Orma Editore) ho capito come la felicità e l’infelicità familiari siano veicolate da dinamiche ancora più complesse, tutte racchiuse in questa favola che parla della nostra realtà.

Tolstoj sembra uscire un po’ malconcio dal cangiante modello familiare dei nostri giorni, proprio lui che era tanto vicino alle dinamiche e al discorso intorno al lavoro. Dai servi della gleba all’organizzazione dell’io del XXI secolo, sarebbe sicuramente rimasto affascinato dalle mutazioni sotterranee che sembrano regolare l’amore verso il nucleo familiare, fino alla cura dell’officina della nostra casa, in questo caso costellata di chiodi, tubi e dinamite.

Nato in Polonia ma naturalizzato tedesco, Nawrat parte da un nucleo familiare tradizionale e lo immerge in un tempo e in un luogo indefinito in cui l’imprenditoria sembra farla da padrone, da vero padrone. Un padrone che sembra aver letto attentamente La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, per poi volerlo superare con una visione di un modello economico ancora più ambizioso.

Così durante l’ultimo Book Pride ho avuto modo di farmi raccontare meglio di questa imprenditoria così apparentemente fantastica e sfumata.

Cominciamo da un aspetto tanto banale quanto fondamentale. Con Imprenditori sei stato pubblicato per la prima volta in Italia e grazie all’attenta proposta de L’Orma ti scopriamo oggi con questo libro. Mi interessa sapere che tipo di scrittore sei.

Direi che sono qualcuno che prende la lingua sul serio. Vorrei scrivere in un modo che renda sensibili il mondo e le storie che racconto e nel farlo, vorrei usare una lingua che permetta al lettore di vedere in modo totalmente nuovo cose che magari già conosce.

Alcune “cose” che già conosciamo sono ad esempio i due grandi blocchi che compongono questo libro uscito nel 2014: parlo del lavoro e della famiglia. Nonostante siano passati diversi anni, possiamo ancora trovare questi due temi al centro del dibattito contemporaneo?

Sì, quando appunto avevo scritto di questi temi, di come questa ideologia economica entra nelle vite delle persone, lo avevo fatto in una maniera molto naturale partendo da delle intuizioni ben precise. Sono sempre stati temi centrali del dibattito culturale ma credo che adesso questi temi siano sempre più evidenti e che politicamente la cosa sia diventata ancora più rilevante.

Un autore come te, presentandoti così, come arriva a unire questi temi -che ti dovrebbero esserti molto distanti- a quell’idea di letteratura che mi pare abbia chi parla di lingua e dia la tua attenzione alle parole.

Non pensavo che il mio ideale di scrittore fosse quello che si occupa dei grandi temi dell’uomo come ad esempio la morte, l’amore ma anche come produciamo la nostra vita. Quando cerco una lingua, ho l’impressione di averla trovata, solo nel momento in cui quella lingua riesce ad esprimere questi temi, senza residui, senza scorie.

Ogni problema lo risolvono con la dinamite. Se qualcosa non va: dinamite. Se qualcosa non viene: kabumm! Non è mai esistito un imprenditore con meno finezza imprenditoriale. Cos’è la finezza?, domanda Berti. La finezza, risponde mio padre, è saper arrivare ai cuori più grandi anche senza ricorrere alla dinamite.

In Imprenditori c’è uno sguardo sull’infanzia che è veicolato dalla tua lingua e da un gioco che fai con il grottesco. Ti sei inoltre dovuto calare nello sguardo dei più piccoli. Quale aspetto ti ha colpito nel guardare attraverso quegli occhi appartenenti a una dimensione distorta?

Attraverso la lingua di Lipa, la ragazzina del mio romanzo, mi ha sorpreso la possibilità di star raccontando un mondo doppio. Da una parte avevo questa lingua capitalistica a cui i bambini credono, anzi addirittura usano euforicamente. Dall’altra, proprio perché la bambina ha uno sguardo molto ingenuo sul mondo, molto innocente, noi lettori -soprattutto all’inizio- leggiamo dietro quell’ingenuità e possiamo vedere dietro quell’euforia l’abisso e cosa si nasconda in esso.

Vieni presentato come uno che ha raccontato con toni picareschi il Novecento polacco e le ansie della Berlino contemporanea. Io ho subito pensato a Witold Gombrowicz, lui era un altro autore diviso tra due terre e quando si parlava di identità, per scappare da essa, parlava di un uomo che voleva diventare artificiale. Che rapporto hai con questa identità avendo scritto un libro sul divenire artificiali?

Mi sono occupato del tema dell’identità anche negli ultimi due romanzi che ho scritto e ogni volta che scrivo un libro nuovo ho l’impressione di cercare, e a volte mi sorprendo del come li trovo, nuovi ingressi per alcuni temi che mi interessano sempre. 

Mi sento in qualche modo un fratello di Gombrowicz, il quale in effetti nelle sue opere di finzione crea questi mondi artificiali servendosi di quella sua lingua altrettanto artificiale. Nel suo Diario, che in Polonia è considerato il suo capolavoro, mostra invece un aspetto tutto privato e più intimo.

Io personalmente mi riesco a interfacciare con questi due aspetti di Gombrowicz, mi parlano e mi interpellano entrambi. Se da una parte costruisco anche io queste lingue artificiali, alla fine mi interessa il mondo nella sua realtà, tanto che il mio ultimo romanzo, L’ospite triste, è un romanzo più schiettamente realistico.

Una favola famigliare, così cita il sottotitolo di un romanzo che tanto ha da regalare, non solo per intensità e cura della lingua. Come se fosse un fortezza persa nel deserto della contemporaneità, una sorte di torre bianca nella quale si nasconde una verità esplosiva.

Io però ormai l’ho imparato: 

nonostante la superiorità della loro torre bianca, nonostante la loro arte dinamitarda, la vera imprenditoria la si fa con il cuore.

Nawrat mi ha fatto vedere un cuore pulsante nell’artificiosità che ci circonda. Eccolo lì, tra fili, componenti elettrici e capannoni abbandonati e pieni di ruggine. Un cuore che non ha smesso di battere, immutato, lo stesso delle famiglie di Tolstoj. Forse.

Traduzione: Marco Federici Solari

Autore: Matthias Nawrat
Traduttore: Marco Federici Solari
Editore: L’orma Editore
Collana: Kreuzville
_______
tag #Distopico #Germania #Polonia

Potrebbe interessarti anche:

Judith Hermann l'amore all'inizio L'Orma

Judith Hermann: Il minimalismo è il mio modo di scrivere.

Andrea PennywiseFeb 14, 20197 min read

Qualche mese fa, alla Libreria Trebisonda di Torino, ho incontrato Judith Hermann per la presentazione de «L’amore all’inizio».

La Collina Misericordiosa di Lore Berger

La Collina Misericordiosa di Lore Berger

Andrea PennywiseGen 5, 20163 min read

Lore Berger è una ragazza svizzera di appena ventidue anni con una passione per la scrittura e una forte avversità nei confronti della vita. Nell’estate del 1943, dopo aver consegnato il manoscritto de «La Collina Misericordiosa» – il suo unico…