Progetto Stigma, tra Èpos e prigioni. Intervista a Marco Galli
Ho preso coscienza di questo dettaglio quando in occasione dell’ultima edizione del Salone del Libro di Torino ho incontrato Marco Galli allo stand Eris Edizioni. Ad accompagnare il sottoscritto Una banda di Cefali, Emozioni in Font, Il Lunedì dei Libri, RadioSonar e Carla Gambale di tararabundidee, tutti pronti ad approfondire e sviscerare il suo «Èpos», il primo graphic novel targato Stigma, la prima uscita di un progetto sicuramente meritevole di attenzione.
MG: Dentro Stigma ci sono diversi autori che si autogestiscono, su tutti i lavori c’è un approccio di gruppo dove si parla di ogni aspetto del libro. L’autore ha poi l’ultima parola prima della pubblicazione, per cui anche se AkaB, la figura che si occupa dell’editing e fa da collante, mi suggerisse ad esempio di cambiare copertina io ho comunque il diritto di declinare, se sono davvero convinto della mia scelta.
È un collettivo anomalo, siamo tutti autori professionisti a parte qualche giovane esordiente, abbiamo libri alle spalle pubblicati da case editrici importanti, italiane e estere (per esempio Alberto Ponticelli, che ha lavorato con Marvel e DC). Non siamo un collettivo alle prime armi e proprio per questo aspetto, fare anche l’editing su noi stessi, in modo un po’ arrogante, ci sembra una cosa normale. Quell’arroganza è per noi indice di libertà.
Abbiamo anche un gruppo chiamato Dummy con il quale era uscito Le 5 fasi, un libro pubblicato per Edizioni BD. Un lavoro sulle cinque fasi del dolore nell’elaborazione del lutto, ci lavorarono in sei di noi: AkaB, Ponticelli, Squaz, Angri, Officina infernale e Ausonia, alla grafica. In verità nel gruppo Dummy siamo in nove e da anni si parlava di fare un qualcosa come Stigma, fino a quanto AkaB – circa un anno fa – si è svegliato una mattina e ha pensato: lo faccio io!
L’idea è quella di fare quattro libri all’anno e la nostra copertura, la nostra programmazione, arriva al momento fino a 2022. Ci siamo poi appoggiati ad Eris perché sono una delle migliori realtà italiane legate al fumetto, troviamo in loro un supporto logistico e ci siamo affiancati nella battaglia per far arrivare i nostri libri in libreria. Abbiamo quindi una casa editrice che ospita un’altra casa editrice al suo interno gestendo anche le nostre formule di pre-order (che danno diritto ad avere un albo supplementare). Una cosa simile la fece Moebius negli anni settanta, in Francia, creando insieme ad altri Les Humanoïdes Associés, sfociato poi nella rivista Metal Hurlant un collettivo che rivoluzionò il mondo del fumetto. Noi non abbiamo queste ambizioni ma sappiamo di aver portato qualcosa di nuovo in Italia. Cercheremo inoltre di fare una rivista annuale seguita da altri progetti, nostra intenzione restava e resta comunque il mettere l’autore al centro di tutto e, per dire, in fase di pre-ordine l’autore prende il 30% del ricavato. Funziona un po’ come un anticipo, ma è ovvio che devi vendere un buon numero di copie. Al momento non si parla ancora di numeri incredibili ma siamo un anomalia nel mercato dei fumetti, dobbiamo essere digeriti e comunque le vendite hanno superato abbondantemente le nostre aspettative: abbiamo cominciato a fare rumore!
Cefali: Il tuo è stato il primo volume di Stigma, potremmo dire che ha fatto un po’ la cavia. Come mai questa decisione? È stata una scelta collettiva o ci sono state delle votazioni?
MG: Perché per il mio metodo lavorativo ho sempre due o tre lavori pronti nel cassetto. Questo è un libro del 2015, non so se sapete della mia malattia, una sindrome grave che mi ha portato alla paralisi completa in 2 giorni. Èpos è un libro che avevo scritto alcuni mesi prima della malattia. Anche quello uscito per Coconino nel 2017, Le Chat Noir, è un libro “vecchio”, del 2012. Ho anche un altro libro nel cassetto, che forse uscirà per Stigma l’anno prossimo. Sono uno che lavora molto, sono anche abbastanza veloce, o almeno lo ero prima delle malattia.
La scelta di Èpos come primo libro Stigma è stata fatta anche per questo: avevo già un libro sicuro, bisognava solo ri-editarlo. Nella versione originale era a colori, ma AkaB mi ha fatto notare questa cosa, e aveva ragione, che avrebbe funzionato meglio in bianco e nero. Il libro è diventato più scarno, essenziale e di conseguenza più interessante, anche sulla lettura, che ha acquistato più forza. Ricordo che l’ho riscritto tutto, ma era un lavoro che si poteva fare in un paio di mesi, perché il libro c’era già. Gli altri autori Stigma al tempo, stavano ancora lavorando sui loro libri, quindi sarebbe stato impossibile uscire in un tempo così breve. Poi con AkaB c’è stima reciproca, ci conosciamo da anni e sapendo dei miei “mille libri” nel cassetto, mi ha chiesto se avevo qualcosa. Gli ho mandato Épos e gli è piaciuto. Si fida di me, come di tutti gli altri Stigma. È stata una scelta naturale.
Emozioni In Font: Da dove prendi le ispirazioni per i tuoi lavori e come riesci a iniziare e portare a termine tanti libri?
MG: In realtà mi faccio poche domande. Ho ad esempio iniziato un fumetto su Hitler – ora a metà e dovrò metterlo da parte per seguire altri progettin- ambientato nel ’44, durante i 4 giorni precedenti allo sbarco in Normandia. Erano i giorni in cui Hitler era ormai l’ombra di se stesso: imbottito di droga, ipocondriaco, pieno di manie ossessive e ormai rassegnato alla disfatta. Ho iniziato a lavorarci in seguito alla visione di un documentario che trattava proprio del tema della droga nella vita del Fürher, mi è scattata una scintilla e il giorno dopo ho costruito la scaletta del fumetto. Questo per dire che non mi interessa capire se un libro può andare in quel momento, non penso mai alle questioni commerciali. Lavoro all’idea e aspetto si impadronisca di me, quasi non le cerco nemmeno le idee, mi arrivano, così, improvvise e possono arrivare in ogni momento. A più a che fare col flusso, non forzo mai l’idea, la lascio lavorare piano piano. Nel mio modo di lavorare l’editore è l’anello finale della catena, gli do il libro una volta terminato e lui decide se pubblicarlo o meno. È un rischio per me, ma riesco a lavorare solo così.v
Cefali: Com’è stato riprendere Èpos a distanza di anni dalla sua prima stesura?
MG: Ogni libro che faccio lo riscrivo almeno 3 o 4 volte. Non uso storyboard di solito, anche Èpos l’ho fatto pagina per pagina. Spesso faccio solo una scaletta approssimativa, poi parto e faccio il fumetto. Scrivo in modo veloce e approssimativo, mentre lavoro, poi lo riprendo dopo qualche mese, lo lascio lì a riposare e lo riprendo ancora, finché non arrivo alla forma finale. Per cui, al di là della distanza di anni o di mesi, faccio più o meno sempre così. In questo caso sono passati due anni, ma per me è stato tutto abbastanza semplice.
Emozioni In Font: Ultimamente mi è capitato di leggere diversi libri di narrativa legati a scenari apocalittici in cui non vi era salvezza per l’umanità. Nel tuo ritorna un po’ questo tema. Qual è la tua visione della società attuale?
MG: Quanto tempo abbiamo? Sicuramente è una visione complessa. Da quando ho avuto la malattia vedo tutto in modo diverso. Non sono un pessimista nei confronti della vita, anzi… Ma questo non vuol dire che non riesca a vedere realmente com’è la società. Spero che Èpos sia preso come un libro aperto, universale. Potrebbe sembrare una storia intimista perché in fondo ci sono anche io -fisicamente- dentro, ma non lo è. Non amo quel tipo di storie. Tendo a leggere letteratura classica, a parte alcuni saggi, è un mio limite, quindi non conosco quella contemporanea italiana a cui fai riferimento tu. Nella letteratura a fumetti c’è questa tendenza a parlare di cose vicine, conosciute, intime, appunto, specialmente nei giovani autori. Io invece voglio allontanarmi, cercare di avere una prospettiva ampia, dare un respiro antirealistico alla narrazione. Nei miei libri uso il “genere”, che permette una codifica immediata, ma tento sempre di superarlo per parlare di altro: piegarlo al servizio di quello che voglio dire. Io cerco lettori partecipi e attivi, cerco di stimolarli, dobbiamo giocare al gatto e al topo. La storia di Èpos, parte con un uomo che torna dal lavoro e si trova in questo incubo senza neanche capire il perché e nessuno glielo spiega. Questo è quello che succede nella nostra società. Quando guardi la televisione nessuno ti spiega e ti dà le motivazioni profonde di quanto accade: continuano a dire tutti le stesse cose in modo meccanico, ripetono la stessa litania, solo per ammaestrare il pubblico, che deve essere abituato a non pensare, che deve arrivare lobotomizzato al momento della pubblicità.
Pennywise: Io ho avuto come un’esperienza totalmente diversa da quella che mi ci hai raccontato. Ti sei legato più a una condizione e un interesse di tipo sociale rispetto a quello individualista però seguendo il tuo protagonista che cerca di raggiungere la strada di casa e nel suo percorso, nella sua ricerca dalla quale viene sempre deviato, incontra diversi individui. Questi vengono abbandonati per un interesse individuale. Vedo una dicotomia, mi dici di prediligere la dimensione sociale ma abbandoni l’individuo, per raggiungere quella strada hai fatto in modo di abbandonare tutti i tuoi individui.
MG: Io però non voglio dare nessuna soluzione nei miei libri e ci tengo a non darla, prima di tutto perché non ne sono capace, poi perché non mi interessa dare risposte e nemmeno averle. Anche da lettore mi interessano di più le domande. Questi personaggi che il mio protagonista incontra nel suo percorso, prima di tutto lo distraggono sempre dal suo obiettivo, quello appunto di tornare a casa, ma se mi metto dalla parte del lettore mi interrogo prima sul perché lui voglia tornare a casa. Ci troviamo in un’apocalisse in cui non si capisce niente e l’unico desiderio del protagonista è tornare a casa! Per me la chiave sta qui. Tutti noi pensiamo alla nostra casa come al posto dove “stiamo meglio”, dove cerchiamo “la serenità”. Dove vivere con la nostra famiglia lontani dai pericoli, ma non facciamo altro che riempirla di allarmi e chiudere fuori il mondo. Ci barrichiamo, senza capire che i demoni ce li portiamo in quella casa, perché sono dentro di noi. Non facciamo altro che auto-imprigionarci, sempre di più!
Pennywise: Quindi secondo te quell’abbandonare terzi è una cosa fatta con incosapevolezza o ci va coraggio?
MG: È semplicemente la paura di vivere le cose altre, lontane da te o comunque nuove. Il mio protagonista è obbligato a stare con queste persone, lui non ci starebbe mai, sono tutte persone che con lui c’entrano poco. Non può far altro che assecondarli, non sa reagire a un mondo disordinato. L’unica cosa che può fare è cercare di seguire le sue abitudini: tornare a casa. Poi, come dicevo, non faccio libri pedagogici, non voglio dare risposte certe. Quando da lettore, leggo una storia dove è tutto chiaro e non c’è spazio per una mia interpretazione, quella storia mi lascia poco.
Il lunedì dei libri: In Èpos ho trovato diversi livelli di lettura. Prima di tutto che il protagonista non avesse minimamente idea di trovarsi in mezzo a un’Apocalisse, si trova lì, sta facendo la sua strada, vorrebbe tornare a casa perché quello è il luogo in cui è diretto. Avrebbe potuto sviare, andare da qualsiasi altra parte, però lui volevo tornare a casa, quello era il suo fine. Poi ho visto in questo graphic novel un secondo livello di lettura, più profondo: ci ho visto tutta l’ansia della nostra società, quell’oppressione che ci ritroviamo tutti i giorni nella vita causata dalle aspettative altrui.
MG: Ecco, in tutto questo discorso, poi bisogna costruire anche una storia che abbia un senso, magari ambiguo, ma che ce l’abbia. Comunque è un’avventura. In qualsiasi forma di racconto (che sia letteratura, cinema, fumetto) le operazioni che sono volutamente poco leggibili, più difficili da comprendere, sono spesso quelle più profonde, ma a volte poco interessanti da seguire. In Èpos invece ho cercato di mantenere una linearità di storia: c’è questo tizio che va da un punto A a un punto B, in mezzo c’è l’avventura, seppur stramba, ma dalla struttura classica.
Il lunedì dei libri: In pratica hai trasformato la routine quotidiana in un’avventura.
MG: Vero, a me interessava molto fare questa cosa. Poi al protagonista, quando arriva a casa, succede quello che diceva Schopenhauer a proposito del vedere le cose attraverso gli occhi delle convenzioni e si toglie il proprio Velo di Maya. Alla fine scopre che non c’è soluzione: la vita fa quello che vuole. Tra l’altro, proprio per la mia esperienza personale, è proprio vero che la vita fa quello che vuole! Utilizzando una metafora: sei sulla tua barca e puoi solo indirizzarla nella navigazione ma l’oceano non puoi controllarlo, risponde solo alle leggi naturali non a quelle dell’uomo. Solo ragionando così nella vita, secondo me, si vive bene. Se invece ragioni volendo costruire tutta la tua vita a tavolino, non funziona. Che poi è quello che il protagonista cerca di fare: cerca di tornare a casa, perché il suo obiettivo è solo quello, gli sembra l’unica cosa sensata. Alla fine ce la fa a tornarci, ma poi si accorge che non esiste una via d’uscita, la sua casa è una prigione. Non si può chiudere fuori il mondo, come l’oceano, il mondo, la vita, fa quello che deve fare, nonostante i nostri calcoli. Ecco perché poi va in spiaggia ad aspettare la catastrofe, nudo, come se fosse appena rinato, finalmente cosciente e uscito da questo utero simbolico, che è la sua casa, e capisce che può solo aspettare, inerme. Catastrofe, poi, che non è detto arrivi. Alla fine, in quarta di copertina, si è scelto di mettere la bomba atomica. Però non è detto, perché potrebbe essere andata così ma potrebbe anche non esserlo. Potrebbe addirittura essere tutto un sogno, all’inizio lui si addormenta e forse non si è ancora svegliato… ma non mi piace questa interpretazione, perché sarebbe una banalità gigantesca! (Ride, n.d.r.)
Io spero che la soluzione la trovi il lettore. Tendo sempre a tenere i finali aperti e AkaB su questa cosa un po’ mi bacchetta, ma a me piace l’idea di una storia che continua nella fantasia di chi legge, anche nei film, è la parte più stimolante dell’esperienza. Penso il libro come una finestra aperta su un paesaggio che sta lì, più ampio, anche se noi ne vediamo solo una porzione dal nostro punto di vista.
RadioSonar: Visto che si parla di un futuro prossimo o meno, perché la catastrofe che mette tutti in allarme è un dinosauro, quindi qualcosa che ritorna dal passato?
MG: Il dinosauro è un bel gioco narrativo. Porta il lettore ad avere la visione di un mondo che potrebbe appartenere a un’altra dimensione: cosa ci fa un dinosauro in mezzo ad una città moderna? Poi si scopre che il dinosauro non è reale, ma era un mostro pubblicitario di cartapesta su un camioncino. Nello stesso momento il protagonista incontra i giocatori di basket: Afro-americani, grossissimi, con mitragliette al seguito, personaggi che potrebbero collegarsi all’attuale situazione in Siria, dove gente normale prende in mano il mitra e va a fare la guerra. Pare inconcepibile che mentre vivi la tua vita normalmente arriva un giorno in cui devi prendere un arma e combattere, ma succede spessissimo, è successo anche a noi e non molto tempo fa. Quello del dinosauro è un espediente per parlare dell’ansia, della paura: nel fumetto i personaggi hanno il terrore di questa cosa che poi si scopre essere di cartapesta. Ed è esattamente quello che succede a noi, abbiamo il terrore di tutto! Il terrorismo, per esempio, non succede quasi mai un cazzo (non so se ammetti parole simili nel tuo blog), almeno da noi. Vero che ci sono stati attentati negli ultimi anni, ma si sa che è difficilissimo che ti succeda una cosa del genere e se succede ovviamente è una sfiga terribile. Molto più probabile morire in un incidente stradale per esempio, ma nessuno a paura della macchina, anzi è ancora uno status symbol. Invece la gente si immobilizza, si chiude nelle case per l’ansia, per la paura di qualcosa che non esiste. È proprio quest’ansia che diventa il dinosauro.
Cefali: Quanto influisce vivere in provincia sul tuo processo creativo?
MG: Ho sempre detto: “I veri artisti stanno in provincia, i grandi artisti stanno in città”. Io preferisco il “vero artista”. Certo che poi dalla provincia vogliono scappare tutti. Ma in una dimensione più ampia come la città, rischi di entrare in circoli chiusi, dove ti senti a tuo agio, coccolato, dove si parla di arte e sei stimolato, ma proprio per questo rischi di vivere la vita in maniera distaccata dalla realtà. In provincia riesci ad interagire con tutti, non puoi sceglierti chi hai vicino. I posti da frequentare sono pochi e sempre eterogenei. Ti ci devi sempre confrontare con i “diversi” da te e questo ti offre maggior ampiezza di “visione umana”, rispetto alla città.
Il lunedì dei libri: Come accennavamo prima, in Èpos la matrice intimista è da rivedere, anche per il tuo vissuto…
MG: Sì, l’intimismo c’è per forza è comunque un “mio” libro.
Il lunedì dei libri: Però c’è da dire che il tuo modo di raccontare procede di pari passo rispetto a ciò che hai vissuto. Racconti di quello che hai vissuto nella tua biografia, quindi lo sappiamo, ma anche non sapendolo comunque si avverte una certa sofferenza, una visione profonda della vita e dell’incertezza che questa comporta. Non sappiamo cosa può succederci e quindi c’è sempre un colpo di scena: è questo forse che catalizza l’attenzione del lettore.
MG: Si parte sempre da cose personali… ma poi, però, mi piace distanziarmi dalle “cose mie”, le trovo poco appetibili per chi legge. Non dico che che non sia l’approccio giusto per raccontare, ma a me interessa poco. Ci sono autori come Pazienza, che faceva questa cosa bellissima di trasformare le sue esperienze personali in qualcosa di surreale… Ma era Pazienza. Non è in assoluto una cosa negativa ma a me interessa un altro modo di affrontare la storia. In Èpos mi ci sono messo personalmente dentro, qui c’è una forte componente soggettiva: partecipare direttamente. Comunque un artista, deve avere il coraggio di mettersi a nudo, almeno nelle sue opere, poi nella vita può fare l’accademico, se vuole.
RadioSonar: L’unico personaggio positivo è il filosofo, positivo in quello che spera: tutti intorno a lui si rassegnano e abbracciano le armi e lui con il suo pensiero, fermo nelle sue convinzioni pensa di riuscire a cambiare tutti quelli che gli stanno intorno. Nel fumetto e nei nostri discorsi hai parlato più volte di filosofia e filosofi, qual è il tuo rapporto essa?
MG: Io mi ritengo un turista della filosofia, mi piace molto leggerla ma non sono un esperto. Sicuramente Schopenhauer è uno dei filosofi che mi piacciono di più, insieme a Nietzsche, grandissimo filosofo che non era un filosofo, ma un filologo. Sono stati tra i primi, non gli unici, ma sicuramente i più perturbanti a parlare dei problemi della società moderna, già in decadimento allora, che vive facendo finta di essere sana, compatta e giusta, vagando invece cieca senza una meta precisa se non la sopraffazione, mascherata dalla parola -progresso-. Quanto meno profetici.
Per quanto riguarda il personaggio del filosofo in Èpos, lui rappresenta il punto più critico della società. Simboleggia la forza che dall’alto vuole educare, e anche se in modo culturalmente elevato, però vuole farlo solamente secondo i propri valori e i propri gusti: toglie qualsiasi tipo di contrapposizione. La cultura in Italia ormai è soprattutto questo, fatta di circoli e circoletti. Si sa che se vai alla trasmissione di Fazio diventi famoso, ma per andarci devi girare intorno a questo sole, a questa cometa. Ci sono delle parole d’ordine, dei compromessi, devi adattarti ai toni, al modo di quell’ambiente, chiunque tu sia. A volte la cultura anche alta, fa più danni o fa danni uguali al populismo, anche se in modo opposto. Io sono contro ogni forma di populismo e di circolo chiuso.
lo ritengo il filosofo il personaggio più negativo e al tempo stesso quello più coerente. Però, a me, una delle cose che fa più paura è proprio la coerenza. Può essere anche una cosa positiva, se è sui “valori” profondi. Ma in cultura è spesso sintomo di un pensiero mummificato, che non si adatta, che non si evolve. Il filosofo del mio libro, vuole influire sugli altri con violenza, li vuole plasmare per una nuova società! È un tipico comportamento dittatoriale e anche se declinato in senso positivo, una società migliore, mi fa paura ugualmente. Se da me venissero degli illuminati, con le idee più belle del mondo, che però propongono un modello preciso e non discutibile di società a cui aderire, mi farebbero la stessa paura che mi avrebbe fatto un Hitler. Oggi l’Italia parla, come governo, attraverso questi concetti: noi, e solo noi, abbiamo la verità, fidatevi e basta!
Pennywise: Tra queste pagine c’è anche un fortissimo uso delle maschere. Veri e proprio volti mutevoli adottati dai personaggi in una visione meramente riconoscitiva o più simbolica.
MG: Si, hanno anche un senso di descrizione del personaggio ma hanno soprattutto funzione simbolica. Quello che è chiamato l’eroe ha questa calzamaglia, che è il classico simbolo del delinquente. Qui c’è un eroe mascherato ma al contrario, se pensiamo ai supereroi: tiene nascosta la sua identità, perché magari finita la crisi, cessato l’allarme, il suo agire violento lo trasforma da eroe, in spietato carnefice. Basta pensare a quello che è successo in Jugoslavia nei primi anni ’90, a tutti quei generali e politici processati per crimini contro l’umanità perché in effetti sterminarono donne e bambini, ma per quelli che stavano dalla loro parte furono degli eroi.
La lettura dei supereroi può essere messa in discussione. Invece che essere l’eroe che si nasconde perché ha paura dell’attacco dal nemico, si potrebbe nascondere perché distrugge tutto senza pagarne mai le conseguenze: mi chiedo sempre quando fanno le loro battaglie epiche e buttano giù mezza città, quante persone perdono la vita, sotto le macerie delle loro guerre. Quando leggiamo un fumetto non ci badiamo, ma dentro quella macchina che l’eroe scaglia contro il nemico, ci potrebbe essere un bambino con la madre. Tutto fatto per il bene dell’umanità, naturalmente. Ma visti così sembrano mostri, più che eroi, no? La maschera ha sempre questa doppia anima: chi c’è realmente dietro la maschera? Nel mio caso serviva anche a caratterizzare il personaggio e nel caso dei bambini, era più una dinamica di racconto: il personaggio del filosofo non vuole che i bambini giochino, perché il gioco, quando diventi grande, non è più consentito, distrae dalle cose importanti. Io, al contrario, mi sento ancora capace di giocare. Anzi, penso che sia il mio unico dovere di narratore. Il gioco è una cosa serissima, ma mai seriosa.
Scoperta una nuova realtà tutta da seguire, così come tra le strade di Èpos, sono pronto a perdermi nelle prossime svolte in cui domineranno stupore e voci sempre diverse.
Autore: Marco Galli
Editore: Eris Edizioni
Collana: Progetto Stigma
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