Tra fantascienza e Post-esotismo: la liturgia del disprezzo di Antoine Volodine.
In quasi dieci anni di frequentazione ho imparato che il suo nome non si pronuncia alla francese, ho attraversato grazie ai suoi libri un mondo sempre più in disfacimento, smarrendo il cuore nella taiga ho trovato sangue e finte speranze nella violenza del suo sguardo politico. Dopo quasi una decade posso anche affermare che Antoine Volodine non è solo questo: nascosto dietro a numerosi eteronimi, alle più disparate voci, è uno e tanti autori. Non ci sono dubbi, grazie a questa pluralità di voci e d’intenti è stato capace di affermarsi come uno degli autori più importanti del panorama europeo dei nostri giorni.
In molti ne hanno capito la centralità, così anche in Italia sta procedendo la pubblicazione della sua opera, grazie alla lungimiranza di 66thand2nd. «Liturgia del disprezzo» oltre ad aggiungere un tassello al complesso mosaico di Antoine Volodine, diventa un libro importante per guardare alla genesi di una letteratura, al feto di quello che era e che ora non è più, mutato nel tempo e dalle radiazioni di un percorso sempre più ambizioso.
Se l’amore di molti è fiorito nelle strutture del post-esotismo, nel genere letterario che Volodine ha affinato sempre più, con questa liturgia sprezzante sposteremo l’intero osservatorio verso gli esordi. A quel momento in cui, in mancanza di un’alternativa, Volodine – con tanto di riconoscimenti – affidò il suo immaginario alla tradizione fantascientifica: proprio nel 1986, l’anno di uscita del libro, vinse il Grand Prix de la Science-Fiction Française, il più prestigioso premio francese dedicato al fantastico e alla fantascienza.
Non era questione di cattiva volontà, ma di necessaria coerenza. Ciò che appartiene alla notte non va svelato nel sempre più vasto disordine della luce.
La luce è lontana dalla cella dell’interrogatorio, si cercano risposte, si perpetuano torture. Lo scenario non è sicuramente inedito, almeno per tutti gli scrittori post-esotici. Le carceri sono il luogo in cui la letteratura è stata emarginata, così come le voci di chi la diffonde, di chi sta contrastando il potere con la parola. Dal carcere il post-esotismo cerca la fuga, attraversa la morte per ritornare alla vita, proprio dalle sbarre sussurra le sue storie. Per questo è sorprendente che una delle prime liturgie dell’autore francese sia veicolata dai ricordi, dalle strade di una memoria tanto calpestata quanto temprata, di un bambino.
In una società devastata dalla guerra, dal potere che cerca di fagocitare la diversità delle razze, saranno i sogni e le memorie d’infanzia ad accompagnarci verso l’alba della verità.
Saranno pagine di cenere e sporcizia, di guerre combattute da tanto di quel tempo da aver perduto le ragioni del conflitto. Il tempo non sarà solo affetti, frammenti di vite e informazioni, ma diventerà una vera e propria disfatta generalizzata.
Si potrebbero citare le suggestioni di grandi classici come «Solaris» o «Stalker», ma per avvicinarsi a questo immaginario fantascientifico dovremo allontanarci molto dalle influenze più classiche di Andrej Tarkovskij. C’è un altro artista, geograficamente più vicino a Volodine, che sembra aver un dialogo diretto sia con il romanzo che con uno sguardo filosofico sul mondo. Niente navicelle o indagazioni spaziali neanche per Andrzej Żuławski, il regista che sul finire degli anni settanta realizzò «Sul globo d’argento», un film censurato dal governo polacco, occultato per altrettanti anni e uscito nella sua forma definitiva a breve distanza dal libro di Volodine. Tutto a dimostrare una certa condivisione politica, l’interesse verso un fantastico altero, più vicino alla mostruosità, al tribalismo, allo scontro e alla preziosa differenza tra le varie razze senzienti.





frame da «Sul globo d’argento» di Andrzej Żuławski (1988)
Per Volodine la fantascienza non fu infatti una scelta, ma una naturale necessità in mancanza in valide alternative. I suoi primi libri non possono entrare in questo immaginario, nonostante siano stati pubblicati da collane ed editori del settore. Tutto era più vicino al surrealismo, a un’idea di avanguardia imbastita e contaminata da una certa tensione politica. Sono gli anni del muro, del grande cambio politico della Russia, ma soprattutto della continua tensione della Guerra Fredda di cui si avvolge anche la liturgia del disprezzo verso l’altro, verso i numerosi nemici da dover soggiogare prima ancora dello squarcio di Černobyl’. Sono anche gli anni in cui lo stesso Żuławski girò «Possession», uno dei suoi grandi capolavori, in una Berlino Ovest fantasmatica, nel clima pre-nucleare dei più grandi incubi europei. Ecco dove hanno guardato molti degli immaginari degli anni ’80, verso un’urgenza popolare di rispondere a domande molto complesse sull’io e sulla collettività, il tutto sempre sotto scacco del pericolo, di sentimenti oscuri e un nuovo conturbante pensiero magico.

Un bambino precoce in modo occulto, così si definisce la voce narrante. Una fotografia piuttosto generosa, soprattutto se appartieni a una razza camaleontica (forse aliena, forse diversamente umana) e capace di assimilare il comportamento, le abitudini e la fame dell’altro. Essere l’altro, poterlo anche solo abbracciare significa essere il nemico. Soprattutto se sei in guerra, soprattutto se le strade sono il palcoscenico della politica della sopravvivenza.
Tutto viene idealizzato nel corso di successive sedimentazioni di ricordi, molti dei quali si sono incrostati e addolciti, e niente potrà mai restituirne il fulgore o la violenza. Alcuni però, sono rimasti lì, e sussultano sotto la cenere.
Setacciando quelle ceneri si potrebbe chiamare in causa anche il Solenoide (2015) di Mircea Cărtărescu, lo scrittore rumeno e la sua descrizione di una madre che accompagna in tram il figlio dal dottore in una Bucarest magnetica. Con qualche anno di anticipo lo stesso Volodine aveva già percorso forse la stessa linea di una città senza nome (ma forse sovrapponibile), sempre seguendo l’amore di una madre, ma verso un luogo in cui le malattie e la vita si affrontano affidandosi al suicidio.
Anche in questo caso «Liturgia del disprezzo» ha suscitato suggestioni altre, di qualcosa che avevo già attraversato seguendo un tempo che sembra perdere valore e al – tempo – stesso non può farsi trascurabile: dimenticare gli anni e il contesto da cui arriva questa storia toglierà molto del mordente e dell’urgenza di un’esperienza così altera. Solo dopo arriverà l’esotismo politico-letterario di grandi capolavori come «Angeli minori» e «Terminous Radioso», tutto verrà addirittura trasformato in manifesto con «Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima», tutto si farà e sarà un vero e proprio unicum.
L’errore da non commettere è quello di fare di questa storia il primo approccio a Volodine, di pensare di potersi avvicinare a una costruzione così complessa da un punto di vista apparentemente esaustivo. Nonostante la scrittura già convincente ma più ermetica, meno cinica e citazionista, tante saranno le difficoltà da affrontare. Il testo richiede impegno, così come il conflitto, per i più potrebbe essere addirittura respingente, lontano dai ritmi forsennati del Volodine maturo. Ma tutto sembra voluto: le frasi e i ricordi occlusivi, la frammentarietà, così come l’intento quasi lovecraftiano di non descrivere nel dettaglio la mostruosità, solo così il lettore più tenace potrà costruire il suo orrore, a immagine e somiglianza delle sue paure più nascoste.

Moldscher, il protagonista, è il testimone di una resistenza degli affetti. Sono gli zii ad averlo manipolato intellettualmente in un percorso di formazione che prevede proprio una resistenza al male, al dolore. La società si immerge nell’odio, così sono i cuori a diventare spigolosi, sono i gesti – anche i più estremi – a testimoniare l’affetto per l’altro. Durante un Salone del libro di Torino lo raccontò anche il bulgaro Georgi Gospodinov, un altro dei più importanti scrittori europei di oggi, di come la sua formazione sentimentale-letteraria fosse stata ereditata da Borges e dai racconti della nonna. Nato nel ’50, Volodine cresce con forti echi della resistenza in cui molti familiari furono bruciati nei campi, persero la vita nel fuoco e nelle storie tramandate legate ad esso. Per questo il post-esotismo riesce forse a parlare dei giorni nostri, per il suo sguardo alla devastazione del tempo e degli affetti seguendo delle regole che la tradizione fantascientifica difficilmente accetterebbe. Lo fa prendendo a riferimento il libro tibetano dei morti e quell’esperienza che le anime vivono coscienti nel momento che separa la morte dalla rinascita.
Dove la fantascienza racconta di un “if”, di una fotografia diversa ed alternativa, il post-esotismo racconta di quello che non vediamo, della mano che ghermisce i nostri sogni e il nostro tempo.
Come se ci fosse una divisione netta nella produzione di Volodine: tra i primi romanzi incentrati sugli orrori che il genere umano è in grado di partorire e una parte più matura ed esotica, più mistica, come antidoto alla difficoltà dello stare al mondo. «Liturgia del disprezzo» e il post-esotismo condividono in parte proprio quella mano pronta a stringerci, la stessa che può trasformare il dolore in una vera e propria manifestazione di affetto.
Così l’arte di ghermire le anime non mi è stata trasmessa nella sua integrità. Ma solo in forma di emozioni frammentarie: sguardi calcinanti dal fondo della strada, stomaco sottosopra, impronte di infinite prostrazioni, abdicazione repentina di colossi.
Durante la presentazione milanese dedicata al libro, grazie all’aiuto di Anna D’Elia, fine traduttrice dell’autore francese, ho avuto modo di guardare tanto al passato quanto al futuro e di interrogare Volodine su quello che sarà.
Ho avuto modo di seguirla negli anni, di vedere evolvere di libro in libro la costruzione della sua cattedrale letteraria. A che punto è arrivato ora il suo progetto, quanto sono vicini gli scrittori post-esotici alla parola fine?


“In Francia, ovverosia nella lingua francese posso dire che quest’anno sto raggiungendo una fine, sto mettendo un punto finale alla costruzione post-esotica. L’ultimo libro che avrà sopra il mio nome è stato pubblicato nel gennaio 2024, ed era il quarantasettesimo libro della serie. L’anno prossimo uscirà il quarantottesimo titolo a firma Manuela Draeger, rimane quindi il quarantanovesimo titolo che non sarà un romanzo, ma un progetto la cui parte della stesura letteraria è terminata.
Si tratta di un progetto che abbraccia una sorta di megalomania, ne sono consapevole, perché si comporrà di 343 brochure che si rifanno e seguono tutte un medesimo modello: ciascuna sarà composta da quattro foto in bianco e nero da me scattate di un quartiere di Macao che si chiama il Porto interno, il quartiere di una città che non esiste più. All’interno di ogni brochuere ci saranno pagine di racconti, o racconti di sogni, come tutte le mie tematiche ricorrenti. La firma di questo grandioso titolo finale sarà «Inferno Johannes» e tutte le altre voci del post-esotismo saranno come disciolte, diventeranno anonime. Ora questo oggetto letterario immersivo si comporrà di 4400 pagine e, naturalmente, capirai bene che non è né editabile né pubblicabile in questo nostro mondo editoriale. Io però voglio che sia un’esperienza concreta, immersiva, una realtà fatta da 49 piccole gallerie, fatte a loro volta da pannelli in cui il lettore possa sprofondare in modo che sia davvero un’esperienza concreta. Mi ripeto, ma nel post-esotismo ho sempre voluto e cercato la totalità e una direzione di dissidenza ben precisa. In questo caso anche di tipo fotografico perché 4 foto per 343 brochure sono circa 1400 fotografie che ho scattato a un mondo scomparso ed è in fondo un forma di concretizzazione del bardo, di un mondo fluttuante.
Quindi sì, tutto sta arrivando a compimento e ci saranno naturalmente delle tappe tecniche da mettere a punto, però per quanto riguarda la parte scritta e il materiale fotografico credo di aver tutto. E io ci sono riuscito, sono riuscito nell’intento di dare voce a una letteratura diversa, a parte. Sono arrivato a ben 49 titoli, nonostante la mia preoccupazione degli ultimi tempi, temevo infatti per le mie ragioni di salute di non riuscire a portare a termine la costruzione della mia cattedrale letteraria, non sarebbe successo se mi fossi ammalato. Ma ci sono riuscito”.
Traduzione Anna D’Elia
Autore: Antoine Volodine
Traduttore: Anna D’Elia
Editore: 66thand2nd
Collana: BookClub
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tag #Fantascienza #Francia #PostEsotismo
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