Voci Dal SUR. Intervista ad Alan Pauls, Andrés Neuman & Federico Falco
Grazie a Voci Dal Sur, la rassegna interamente dedicata alla letteratura argentina ospitata dal Teatro Franco Parenti di Milano, ho avuto modo di partecipare a due giorni di confronto su questa narrativa dal Sud del mondo.
Molti gli ospiti che hanno animato un dibattito appassionato, che si sono fatti rappresentanti di sottili sfumature passate e presenti legate a più continenti, una specie di tango a due che ha coinvolto l’Italia e l’Argentina rinnovando un legame molto solido tra due culture molto vocine.
Ho avuto l’onore di discutere alcuni aspetti emersi durante i numerosi interventi con un trio d’eccezione: Alan Pauls, Andrés Neuman e Federico Falco. Abbiamo parlato del cuento, il racconto, che tanto ossessiona la tradizione letteraria argentina, per poi spostare l’attenzione verso alcuni aspetti di questo paese e del suo legame con la nostra contemporaneità.
Non possiamo parlare di narrazione argentina senza pensare al racconto. Cercare di definirlo non è per nulla facile, soprattutto guardando alla storia della narrazione breve.
Ho provato a parlarne con Andrés Neuman, lui che fu uno dei “protetti” di Roberto Bolaño, il quale sembra non esitare davanti qualsiasi tentativo di definizione. Così come il giovanissimo Federico Falco, sempre pronto ad approfondire aspetti tecnici e non, legati a questa forma. Molto più difficile è stato penetrare la personalità di Alan Pauls, romanziere per vocazione ma attento critico di questa letteratura.
Cos’è il racconto?
AN: Il racconto è una porta che si apre verso lo sconosciuto, una scala che scende verso l’inferno, un vetro oscuro che può riflettere il proprio lettore ma non l’autore, è un atto di traduzione interna, un mattone infilato nella parete della narrativa, un piede che cammina verso nulla.
Dopo tutti questi anni di scrittura c’è ancora un aspetto del cuento che vi mette in difficoltà?
FF: Si, senz’altro, tutti gli elementi di questa forma. Il problema del racconto in sé è che in quanto genere ha sempre predominato un’idea di racconto molto classico, perfetto, quello a cui rimandano i classici decaloghi della tradizione. Il racconto doveva iniziare e finire in un certo modo e provare a rompere con quelle regole significa iniziare ogni volta da zero. Ogni volta che mi siedo a scrivere un racconto è per me un’esperienza nuova, come se non avessi accumulato niente nelle scritture precedenti. Continuo a chiedermi cosa possa succedere durante ogni nuova scrittura.
Se c’è una cosa che ho imparato scrivendo racconti è che devo tenere a bada l’ansia e imparare ad aspettare. È l’unica regola, si tratta di una qualità assolutamente necessaria perché piano piano il racconto emerge e tu lo conosci solo in quel momento in cui si sta formando e non prima.
Se non si riesce a tener a bada l’ansia e la voglia di chiudere il racconto è troppo forte, si finisce per usare una di quelle formule classiche preesistenti e la trappola sta proprio in questo. È una cosa che va evitata, non bisogna caderci perché ogni racconto ha una sua vita che va capita e considerata di conseguenza.
AN: La cosa che ancora mi mette maggiormente in difficoltà nello scrivere i racconti è – il quando terminare un racconto – perché so di non cercare un finale spettacolare ma anzi, il contrario. Sono consapevole ci voglia un finale che resti nella mente del lettore, memorabile ma non sensazionalista.
Come trovarlo? Credo sia come andare alla ricerca di qualcosa di impossibile, deve essere un finale chiuso e aperto allo stesso tempo ed è una cosa sulla quale lavoro molto, non solo in fase di scrittura ma anche in quella di revisione. La fine della storia e la fine del testo sono due cose molto diverse e io lavoro nello spazio che sta nel mezzo.
Alan Pauls, per quanto ti riguarda ho invece trovato un limite dovuto al rapporto viscerale tra tradizione argentina e racconto. Nonostante siate per la maggiore autori legati a questo genere, ti sei occupato del racconto da un punto di vista critico ma non ti sei mai avvicinato a questa forma in maniera piena. Perché?
AP: Ho scritto racconti quando ero molto giovane e già allora avevo la tendenza a scriverli molto lunghi, non ero molto a mio agio con questo genere, con quella forma e da subito ho cercato di ampliarne i limiti. Mi sono poi messo a scrivere romanzi molto presto e ho capito che il racconto non genera in me molta curiosità, così come la sua forma di scrittura.
Non sono neanche un grande lettore di racconti, li leggo senz’altro ma non come una mia scelta spontanea. Credo di avere qualche problema con la pedagogia del racconto, con un certo dogmatismo che riguarda questo tipo di forma. Mi sembra che il romanzo sia molto più libero e abbia spunti meno rigidi. Anche quando i racconti sembrano trasgredire queste regole mi sembra che siano sempre troppo dipendenti da un modello che viene stabilito in modo ortodosso.

Doveroso cercare di capire meglio anche l’Argentina, una terra sorprendentemente lontana dall’idea letteraria del passato. Un paese ancora più aperto al presente che dal punto di vista meramente intellettuale emerge come un cuore pulsante aperto a qualsiasi tipo di influenza.
Trovate ci sia un aspetto spiccatamente argentino nella vostra scrittura? Sentite che con la vostra narrativa possiate rispecchiare la contemporaneità del vostro paese?
FF: Mi sembra difficile sedermi a scrivere cercando di rappresentare un paese o un’intera generazione. Un paese che ha tra l’altro mille sfumature e mille correnti diverse spesso contraddittorie tra loro, ed è proprio questa una delle caratteristiche più interessanti della letteratura argentina.
Non saprei dire in che modo quello che scrivo rappresenta l’Argentina, senz’altro c’è lo sguardo di una persona che proviene dalla provincia, da una città piccola, uno sguardo dall’interno.
Se qualcosa dovesse accomunare tutti gli scrittori della mia generazione, da una parte sarebbe l’aver tutti letto, come anche le generazioni precedenti, moltissima letteratura tradotta da tutto il mondo e dall’altra parte, con l’avvento di internet e dei nuovi media, c’è una sorta di contatto con il mondo molto più immediato. A questo punto le tue letture non dipendono soltanto dalle scelte degli editori ma sono una scelta molto più personale.

Nelle mia esperienza, soprattutto durante gli anni di formazione, della mia adolescenza a Córdoba, ricordo come tutto fosse lontano, qualsiasi mia percezione era separate da distanze infinite. Non conoscevo molti scrittori e piano piano mi sono avvicinato a un gruppo di scrittori del luogo: ho conosciuto María Teresa Andruetto e Lilia Lardone, diventate in seguito le mie maestre.
Ho poi capito che una delle cose belle della distanza è che ti permette di leggere abbandonando ogni tipo di pregiudizio. Puoi avvicinarti a scrittori come Cortázar, Natalia Ginzburg, Pavese o Hemingway e per te sono tutti lontani allo stesso modo, non li collochi come argentini, italiani o americani.
In qualche modo anche il fatto di essere lontano da Buenos Aires mi ha permesso di sviluppare e mettere insieme un catalogo di letture molto particolari e diversificate e mi sembra che questo rifletta molto bene l’Argentina in quanto paese fatto di una mescolanza di persone diverse, di culture diverse, di migranti o banalmente il fatto di essere stata una colonia. C’è una sorta di pluralismo che mi sembra la cosa molto più rappresentativa di questo paese.
AP: È molto difficile per me rispondere a questa domanda. Non ho una vera e propria consapevolezza della qualità di un’ipotetica “argentinità” nelle mie opere. Senz’altro so che per me l’Argentina è un problema, un problema in quanto a materiale di lavoro. Mi sembrerebbe però molto presuntuoso dire che cosa ci potrebbe essere di argentino nelle mie opere e soprattutto molto petulante e nuovamente presuntuoso dire che cosa c’è nella mia opera di contemporaneo. Credo che la mia caratteristica più contemporanea stia nell’essere totalmente anacronistico, mi piacciono i romanzi dell’Ottocento e cose di questo genere.
Se dovessimo descrivere l’Argentina, scattando ad esempio una fotografia, come ci apparirebbe?
AN: L’Argentina è un paese che ha fatto della sopravvivenza una specie di arte un po’ macabra. Potrebbe insegnare, nel caso sia in grado di insegnare qualcosa, a rimettere insieme i pezzi e a farne qualche cosa di interessante. È come se fosse un’araba fenice in agonia permanente capace di rinascere e riprendere a vivere. Abbiamo avuto tanti colpi di stato, diversi crolli economici ma c’è un perenne esercizio di autocritica e di ricostruzione.
L’Europa che crede in una stabilità molto poco possibile, credo possa imparare dall’Argentina un po’ quest’arte di vivere nell’instabilità totale. Chiaramente non si può imparare troppo perché questo potrebbe portare a risultati catastrofici. Sono però convinto che l’Argentina sia senz’altro un paese difficile da estinguere.
Traduzione: Giulia Zavagna
E per approfondire:
Alan Pauls: Il confine è un limite. #InViaggioConSUR
Autore: Alan Pauls, Andrés Neuman, Federico Falco
Editore: SUR
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tag #Argentina #FestivalLetterario
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