Gabriele Di Fronzo: l’incompiutezza è propria delle cose umane.
#LeInterviste
«Il Grande Animale» di Gabriele Di Fronzo è un esordio inaspettato, la conferma di un’identità editoriale forte, quella di nottetempo e dei suoi titoli legati alla narrativa italiana contemporanea.
Ho pensato quindi, attraverso qualche domanda, di approfondire con questo talentuoso autore e di levarmi qualche curiosità.
“Il mio lavoro ha a che fare con la parte viva dei morti”.
Questa affermazione forte di Colloneve, del tuo protagonista, spicca tra le prime pagine del romanzo. Quanto coraggio c’è voluto per affrontare un tema così delicato?
Esattamente quanto ce n’è voluto, io ne ho messo a disposizione. Credo comunque non ne avessi granché di più di così e quindi, quel che mi auspico, è che in attesa che mi metta al lavoro sul prossimo romanzo, nel frattempo possa rifare le scorte, altrimenti ci sarà da preoccuparsi. Di un po’ di sprezzatura c’è ahimè sempre l’esigenza. Anche se forse, più che di coraggio, si tratta di altro. Magari è “la scheggia di ghiaccio nel cuore” di cui, secondo Graham Green, lo scrittore dovrebbe sempre potersi servire.
Nel romanzo vengono descritte con minuzia le varie azioni del tassidermista esperto, senza però far risaltare una violenza estrema. Ti sei dovuto documentare su questo mestiere atipico? Perché la scelta di anestetizzare questi atti estremi?
Prima che mi mettessi in testa di raccontare questa storia non avevo una conoscenza neppure superficiale del lavoro in questione. A Torino c’è un bel Museo Regionale di Scienze Naturali, lì ho passato diverse giornate, a partire alla prima mattina al pomeriggio più buio: ho consultato i libri, alcuni dei quali risalenti all’Ottocento, presenti nella biblioteca e sono stato per molte ore al giorno a contatto con gli animali della collezione. Seduto, studiavo, passeggiavo, stavo fermo davanti a una teca con dentro l’esemplare per del gran tempo e poco a poco mi sono fatto sempre più competente.
Per quel che riguarda invece la tua seconda domanda. Sottoporre una persona ad anestesia, renderlo insensibile alla sofferenza, al patimento, è di solito quel che vorremmo fare quando una persona prova dolore, crediamo così di salvarla. Francesco Colloneve, per come ha formalizzato il suo comportamento tanto singolare, al contrario, esige di passare nel dolore con tutta la sua persona.
Perdere qualcosa a noi caro è spaventoso per tutti. Grazie al tuo protagonista e alla sua singolare vicenda, mostri ai lettori modalità, tempi e dinamiche singolari per affrontare questa perdita che viene quindi traslata in una dimensione di eternità. Quanto è difficile secondo te affinare quest’arte di sopravvivere alle cose perse? E qual è il suo aspetto più destabilizzante?
La memotecnica sentimentale che inventa Francesco Colloneve gli dà l’impressione di poter incapsulare nell’ambra più dolce il ricordo del padre. Il procedimento che mette in atto attraverso le sue competenze e la sua sensibilità gli dovrebbe consentire di accettare la morte del genitore, comprendere il distacco definitivo, nel modo più sottile e compiuto di cui sia in grado. Che poi ciò gli riesca per davvero o che al contrario il suo progetto non trovi una felice conclusione, è un aspetto che credo non ci debba interessare granché, visto quanto l’incompiutezza è propria delle cose umane.
Il romanzo è diviso in 125 paragrafi, ci sono gabbie riempite da uno stile molto ricercato e non si può notare la cura usata nella scelta di ogni singola parola. Questo lavoro di levigatura, quanto tempo ti ha richiesto? E quando hai capito di doverti fermare?
Il romanzo ha avuto un lungo periodo, necessariamente preliminare a quello della scrittura, che è durato diversi mesi, in cui ho raccolto il materiale senza il quale non avrei potuto dare la voce a un imbalsamatore. Non era solo un fatto di vocabolario e di procedure, tagliar cosa e tagliar dove, ma un approccio posturale a una storia con questo centro nevralgico – la morte del genitore – e con un personaggio tale a dovervi mettere le mani. Per mimetizzarmi al meglio che avessi potuto. È stato quindi un sopralluogo continuo, per i corridoi e le sale del Museo Regionale di Scienze Naturali, e tra gli scaffali della biblioteca dove lavoravo nell’anno in cui apparecchiavo il tavolo per scrivere, e incidentalmente anche in me stesso: tutto convergeva all’interno della figura di Colloneve. Solo dopo, e senza interruzioni mai più lunghe di un paio di giorni, ho scritto il romanzo. Ho riconosciuto la sua conclusione ben prima di arrivarvi. Con la formulazione dell’incipit, pressoché in contemporanea, stesi l’ultimo paragrafo.
Il rapporto padre-figlio è un rapporto molto faticoso fatto di sentimenti primordiali e contrasti passati. Per certi versi senza voler esagerare potremo parlare di una sfumatura kafkiana. Quanto lo senti vicino come autore?
Rispondessi a questa domanda, in qualunque modo lo facessi, peccherei di presunzione. Già ne ho avuta tanta a imbastire questa piccola storia. Come dicevo in occasione della prima risposta, ora l’ho bell’e che finita, sono tornato il timido di prima, e l’esprit per dirti della mia vicinanza o lontananza kafkiana proprio non so dove andare a cercarlo. Mi perdonerai.
Il romanzo è abitato da alcuni personaggi nascosti, quasi sotterranei. Tra questi la figura della madre alla quale si contrappone la perdita, questa riesce a diventare un protagonista vero e proprio. Come mai hai deciso di nascondere queste figure?
La madre, per dirla con Attilio Bertolucci, è un’assenza, più ostinata presenza. È la tigre assenza di Cristina Campo. È un fantasma pericoloso: le poche volte che viene citata per bocca del figlio, sono le evidenze di un abbandono già avvenuto, le tracce di una scomparsa irreversibile, e quindi dolorosissime. Del resto, la parte considerevole di ciò che importuna la nostra vita, di solito non si lascia vedere. Così almeno credo io.
La vicenda si concentra per lo più tra le mura di una casa in cui un protagonista prima molto razionale comincia, per un occhio esterno, a cercare nuove certezze. Da grande lettore quale sei, quali sono state le difficoltà nel costruire una storia con basi letterariamente così classiche e sviluppo così originale?
Nel suo saggio La filosofia della composizione Edgar Allan Poe sostiene che in letteratura per raggiungere l’effetto di isolamento è necessario uno spazio che sia circoscritto, dalla planimetria il più che sia possibile ridotta. Questo, dice, ha anche “l’indiscutibile potere morale di concentrare l’attenzione”, non è dispersivo, nulla è diluibile. Tutto accade tra le pareti del piccolo appartamento del padre. Luogo chiuso, segreto, inaccessibile a chiunque che non siano i due personaggi della storia. Secondo James Cain scrivere romanzi è una questione di politica estera: bisogna continuamente risolvere dei problemi. In questo senso, la cattività in cui vivono i due protagonisti è stato un modo proficuo di risolvere un primo problema: il piccolo appartamento in cui Francesco Colloneve e il padre abitano insieme, svolge infatti sui due un’oppressione coercitiva, li obbliga a un rapporto di stretta necessità che solo in cattività avrebbero potuto e dovuto instaurare.
L’arte di sopravvivere alle cose perse, questo il cuore di un libro ambizioso pieno di sorprese che vi invito a scoprire. Un’esperienza di lettura sicuramente difficile da dimenticare.
Autore: Gabriele Di Fronzo
Editore: nottetempo
Collana: Narrativa
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