Laia Jufresa: Nella mia casa messicana ho portato la voce delle donne.
In occasione della quinta edizione de La Grande Invasione, il festival letterario di Ivrea capace di ospitare di anno in anno grandi ospiti internazionali e non, ho avuto l’onore di incontrare Laia Jufresa, autrice messicana di «Umami», il suo romanzo d’esordio pubblicato in Italia da SUR.
Umami è una storia di intrecci del dolore, di innocenza, di crescita e sul ritorno a quella normalità della vita strappataci da un lutto.
Un comprensorio di case, una sorta di condominio su strada, veicolerà le grandi domande per interrogare il passato e il presente.
In occasione di una colazione, accompagnato da altri blogger, abbiamo avuto modo di parlare di gusti, di violenza, lingua e mura domestiche.
Quello dell’umami è un concetto legato al cibo e al suo sapore. Spontaneo chiedersi da dove nasca la voglia di approfondire questo interesse.
Mi è capitato di conoscere la parola umami prima di iniziare a scrivere il libro. Ho scoperto si trattava di quella cosa che trasforma un cibo qualunque, che da solo non avrebbe particolare sapore, in un vero e proprio piatto. Volevo capire se questo concetto esisteva anche nell’alimentazione precolombiana, io però scrivo finzione e non antropologia dell’alimentazione e ho quindi trasferito questo interesse a uno dei miei personaggi.
Mi interessava, però, principalmente scrivere del lutto siccome mi ero appena trasferita dal Messico, un paese ancora pieno di violenza e morte, e nonostante non volessi raccontare direttamente la violenza, volevo parlarne in qualche modo.
Mentre scrivevo ho cominciato ad associare l’umami al tipo di dolore e di lutto che volevo descrivere, mi riferisco al lutto quando sta finendo. Quel momento in cui quella spaccatura si trasforma in qualcosa di diverso e mentre sta terminando si può trasformare in tristezza o allegria, in qualcos’altro, esattamente come l’umami.
Avendo lavorato al libro scrivendo singolarmente la storia di ogni voce, come hai fatto a mantenere questo senso di sospensione all’interno di una narrazione a più voci?
Per me questa era una delle cose più importanti perchè in Umani le cose più gravi e importanti del libro si sanno dall’inizio, si scoprono dalle prime pagine, non c’è una suspance che ci potrebbe essere in un giallo e quindi la mia domanda era come tenere alto l’interesse del lettore.
Molto spesso quando si scrive un libro, quando gli scrittori si interrogano su come strutturare un romanzo, si parla sempre di climax, un concetto di catarsi estremamente assimilabile. In realtà difficilmente il lutto funziona così è più un processo che va a ondate, sale, scende, del dolore non ti liberi mai, ce lo si porta dietro per anni interi e la mia struttura riflette proprio questo stato, porto infatti i miei lettori tra passato e presente, tra diverse emozioni.
Volevo esplorare la questione del lutto permanente, volevo parlare del Messico senza parlare della violenza ma dare comunque la sensazione di come si possa vivere in un posto in cui devi da una parte portare avanti la tua vita quotidiana con i suoi problemi e trovarti allo stesso tempo in un ambiente in cui la violenza è all’ordine del giorno e ci sono molte persone scomparse. Più che arrivare a una catarsi, volevo proprio mantenere quella sospensione di cui parlavi.
Il tuo libro è caratterizzato da sottile ironia che, in particolare, i protagonisti rivolgono contro la lingua dei gringo. Questo porta ad un capovolgimento del mito americano e del suo sogno. L’America non è più un luogo da desiderare, ma quasi da deridere.
Quando avevo finito la prima bozza del libro l’ho fatto leggere a un’amica, una scrittrice argentina, e lei mi disse che era un libro molto messicano perché tutti i personaggi erano ossessionati dall’inglese. Non erano gli aspetti culturali o il cibo a renderlo messicano, ma la lingua che con il Messico ha un legame molto stretto. Siamo tutti consumatori di letteratura americana ma in Messico la relazione con gli USA è più complessa: c’è un rapporto di andata e ritorno. Lo vedi anche solo dal tassista che ti racconta di aver vissuto dall’altro lato del muro. Non solo le persone migrano verso gli Stati Uniti, ma ritornano e rendendo questa influenza costante, così l’inglese è parlato tra tutti i livelli culturali.
I personaggi del libro rappresentano la classe media che vive a Città del Messico, alcuni di loro sono figli di un’americana e questo riflette anche la mia esperienza. Ho vissuto anche io negli Stati Uniti, ci andavo spesso da bambina perché mio nonno ci viveva mentre io vivevo in campagna. Lui mi inviava tanti libri in inglese, sono sposata con un americano e mi interessava esplorare questa relazione tra le due lingue. Quando si parla di USA e Messico si ha sempre presente una relazione tra paese oppressore e oppresso ma non è soltanto così, ci sono molti altri livelli di interpretazione.
Nella tua intervista con Valeria Luiselli, pubblicata sul blog di SUR, si parlava di una tua raccolta di racconti pubblicata dopo diversi anni di indecisioni e duro lavoro. La forma del romanzo ti ha reso più istintiva o si tratta di qualcosa di diverso?
In quel caso era il mio primo libro e ho sentito per un sacco di tempo che non aveva senso pubblicarlo. C’è chiaramente chi dice il contrario affermando che i tuoi testi finché non passano per la lettura pubblica, tu non riesci ad andare avanti con altri progetti. Nel mio caso però non aveva senso, finché una cosa non viene pubblicata ho sempre il tempo di migliorarla.
Quello era un periodo di formazione e mi è stato utile aspettare per continuare a lavorare su altri fronti. Ora chiaramente non mi interessa scrivere per me, ci sono molte cose che butto via, ma fa parte del mio processo di scrittura. Di quel primo libro con Valeria Luiselli ne abbiamo parlato tantissimo, ho aspettato otto anni per pubblicarlo. Ero in un periodo di blocco, cosa negativa ma che nel mio caso mi è servita per lavorare su me stessa e sulla mia scrittura. Ad esempio c’erano racconti di quaranta pagine che poi nella versione finale sono diventati di sei, non perdendo niente.
In più come autrice mi sembra importante imporsi in questo tipo di disciplina e di cura, perché se ci si mette ad ascoltare il mondo editoriale che va molto veloce ed è pieno di nuovi libri in libreria, uno potrebbe anche farcela adattandosi ma a discapito della qualità.
Se io penso alle mie letture dei grandi autori messicani, dai monolitici come Pitol, alle nuove generazioni come Villoro, c’è sempre la costante della casa come uno dei temi centrali dei loro romanzi. La casa di Pitol può assumere il ruolo del ritorno alle origini, un ritorno storico rispetto a un Villoro che può avere una funzione del tutto diversa. Anche in Umami la casa è un collante tra tutti i personaggi e per ognuno ha una valenza diversa. Ci racconti il tuo rapporto con la casa, cosa è per te e che difficoltà hai riscontrato tra quelle mura.
Nel mio caso credo che abbia molto a che fare con la mia esperienza di quando mi sono trasferita a Città del Messico. A 18 anni mi credevo una persona super mondana ma scoprì di concepire e affrontare la città dividendola in piccoli spazi. In particolare poi a Città del Messico c’è una strada che attraversa tutta la città, si chiama Avenida de los Insurgentes, e all’inizio quando ho imparato a guidare percorrevo solo quella strada, facevo dei pezzettini, accostavo, parcheggiavo e proseguivo a piedi con la paura di perdermi.
Il mio romanzo è ambientato in un comprensorio, un complesso di case, all’inizio può sembrare una sorta di guida di Città del Messico, cosa del tutto sbagliata siccome non si esce mai da quello spazio. In città così grandi lavorare sugli spazi piccoli può riflettere situazioni quotidiane in modo molto efficace. Se ad esempio un bambino non si appropria dei dintorni e della strada perché pericolosa, crescendo e giocando sempre nel suo cortile, svilupperà una determinata sensibilità.
Per quanto riguarda il concetto della casa mi sembra ci sia una divisione molto netta tra gli spazi privati, familiari, rispetto quelli dello spazio pubblico. In tutti i paesi cattolici, in Messico come credo anche in Italia, nell’ambito della vita familiare c’è una quotidianità, una vita che può essere molto più libera della vita pubblica, nonostante a volte possa diventare violenta. Questo mi sembra molto più interessante da narrare, gli spazi pubblici spesso sono più ipocriti di quelli privati.
La mia generazione che è quella successiva a Villoro, che a sua volta è quella successiva a Pitol, sta cercando di approfondire altri aspetti. Nelle narrazioni messicane classiche ad esempio, all’interno della casa c’è una voce maschile che era sempre la voce narrante e preponderante. All’interno di Umami invece, la voce è anche quella delle figlie, delle madri, delle voci femminili che non sono mai state protagoniste nella letteratura messicana. Nella mia casa messicana ho portato la voce delle donne.
Tra le pagine di Umami lo sguardo saturo d’innocenza alla ricerca della giusta luce interiore, appunteremo tutti i nostri sentimenti in uno scritto privato come antidoto al dolore.
Una nuova cultura, mais, fagioli e zucca tra la ruggine della terra e un rinnovato amore, l’inno alla vita.
Traduzione: Giulia Zavagna
Autore: Laia Jufresa
Traduttore: Giulia Zavagna
Editore: SUR
Collana: SUR
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