Ogni luogo ha uno spirito. Intervista a Sandro Campani.
«Il giro del miele» di Sandro Campani (edito Einaudi) è una delle proposte più interessanti di questo inizio 2017. L’ennesimo libro di qualità della narrativa italiana degli ultimi anni che ho voluto approfondire ulteriormente. Ecco qualche domanda per parlare di questa storia di omissioni e riscoperte.
Il giro del miele si serve di una scrittura densa, pensata. Ogni frase nasconde silenzi pronti a trasmettere emozioni forti. Come hai lavorato alla scrittura di questo ultimo romanzo e quali sono state le difficoltà maggiori?
La prima stesura del romanzo era in terza persona: uno sguardo molto pulito, lineare, quasi “da bambino”, come disse Giulio Mozzi leggendola, sulla storia d’amore fra Davide e Silvia. Tutti gli altri personaggi erano già presenti, e avevano le loro ubbie, la loro vita, le loro vicende. Ma assistevano dal di fuori, richiamati quando occorreva. Era un dramma minimale sulla degenerazione di un amore, con un coro di familiari e compaesani a fare da contorno. Poi Giulio, partendo da una considerazione sulla lingua, mi disse: “Chi racconta questa storia?” Ci ho pensato su e ho capito che la storia doveva raccontarla Giampiero. Il resto (la cornice teatrale, l’emergere in superficie come scena principale del duello fra Giampiero e Davide, il loro dialogo fatto di aggressioni inconsulte e repentine timidezze, le loro voci), è venuto da sè. La centralità assegnata al non detto è dovuta sia al carattere di Davide, alla sua inadeguatezza scontrosa, sia alla mia necessità di restare in una stanza con loro due per 250 pagine: ogni piccolo gesto, ogni silenzio ha assunto un’importanza scenica impossibile da ignorare. Dovevo soppesare tutto.
I tuoi personaggi sono uomini e donne dalle psicologie profonde. Mi chiedevo se lavorare in questa direzione, verso la definizione di caratteri così definiti, fosse stata l’intenzione primordiale di questo tuo percorso o se sia stato un processo naturale e spontaneo.
Nel passaggio dalla terza alla prima persona a cui ho appena accennato, era implicito questo risultato: mi sono accorto che, raccontando dal di dentro, i personaggi prendevano la parola – tante volte ho recitato ad alta voce quello che si stavano dicendo, arrabbiati, delusi o inteneriti: non voglio farne una scenetta pittoresca, l’autore che piange o s’arrabbia da solo mentre registra un messaggio vocale; è andata così. I personaggi hanno preso prepotentemente la parola, e io li ho assecondati. Credo, per la prima volta, di aver trovato un equilibrio fra una storia di luoghi, di ambienti, e una storia di personaggi.
Proprio il non detto risulta essere una delle chiavi di lettura di questi rapporti così delicati. Come è possibile non lasciar sfuggire tutto quello che amiamo, i nostri affetti, i nostri sentimenti, il nostro mondo, soprattutto mantenendo un atteggiamento così privato?
È esattamente il problema di Davide, ed era stato il problema di suo padre: il disprezzo atavico e vergognoso che un uomo educato a lavorare senza tante chiacchiere porta verso chi si parla e si piange troppo addosso. I sentimenti sono una cosa da non esprimere, da sopprimere quasi – andare dallo psicologo, dice Davide a un certo punto, “è una cosa, per come siamo cresciuti su di qua, a cui si guarda come a una cretineria, una roba da femmine viziate o da malati immaginari”. Questo finisce per diventare una barriera difficile da rompere: Silvia le cose le sa, le vorrebbe dire, le vorrebbe affrontare parlando, ma non può resistere per sempre caricandosi sulle spalle tutto il peso.
Nel romanzo un bestiario molto ricco accompagna il lettore: dalla lince alle api, senza dimenticare di citare il cane del vicino di Davide. Tutti animali con una funzione ben precisa e un ruolo quasi simbolico. Quanto è importante per te la funzione simbolica nel tuo romanzo?
È molto importante. Nel momento in cui assegniamo una funzione narrativa a un elemento naturale – e cioè, in soldoni, siamo uomini che osservano la natura – dobbiamo essere consapevoli che per millenni milioni di uomini hanno osservato quell’elemento prima di noi, stratificandolo di significati ramificati e contrastanti. Una volpe o un lupo, un giglio o un nocciòlo o una quercia, tutto è simbolo. La cosa importante è che il simbolo sia una consapevolezza a posteriori, non un programma; che sia aperto e non univoco; che sia una suggestione, non un’allegoria; che dia la sensazione del mistero, non la sua spiegazione.
Ecco, ad esempio: il cane del vicino di Davide è l’unico personaggio reale che ho trasferito dalla vita sulla carta, in questo libro; nella casa in cui ho abitato per una decina d’anni, prima di risalire un po’ in collina, avevo per vicino un cacciatore che teneva malamente i cani, chiusi in una gabbia piccolissima a lamentarsi tutto il giorno, affamati e sporchi. Ce n’era uno talmente disperato che non smetteva mai, mai, mi ha accompagnato per tutta la prima stesura del romanzo, mi faceva impazzire il cervello. E ho detto: basta, adesso ti metto nel libro e ti faccio morire male. La sua funzione evidentemente simbolica di termometro infernale, che dà la misura della degenerazione del rapporto fra Davide e Silvia, del loro dibattersi nell’incomprensione e del precipitare di Davide nella violenza, è una conseguenza, una fioritura imprevista a cui dare coerenza, non una strategia premeditata.
Lo sfondo della tua storia è fondamentale per ricreare una sensibilità ben precisa, un occhio diversificato sulla bellezza che ci circonda. Un vento deciso ad aggredirci nel momento di difficoltà, piuttosto che il continuo richiamo ai nomi di ogni albero o legno. Qual è il tuo rapporto con lo sfondo delle tue storie?
Sono cresciuto in un paesino molto piccolo, in una borgata che d’estate si animava grazie ai villeggianti ma d’inverno aveva quattro case abitate: la nostra, quella del falegname, quella di una vecchia che io e mio fratello credevamo strega e infastidivamo continuamente, e più su, ma già sulla strada, un bestemmiatore con una gamba dritta. Essere bambino in un posto isolato ti porta a osservare tantissimo, forse; in più, sono cresciuto leggendo scrittori di luoghi – Steinbeck prima di tutto, che trovai in casa, insieme a Pavese – poi Faulkner, Flannery O’Connor, Fenoglio; leggendo questi libri, trovavo posti come il mio; più avanti mi sono ovviamente innamorato di Cormac McCarthy: gli scrittori bravissimi nelle descrizioni mi danno ebbrezza. Il luogo per me non è soltanto sfondo, è un personaggio. Ogni luogo ha uno spirito, ci credo fermamente. È stato difficile per me, ed è una battaglia ancora in atto, cercare un equilibrio fra descrizione e narrazione. All’inizio, mi facevo talmente prendere dalla gioia del descrivere che mi scordavo di raccontare. Devo starci attento.
Negli ultimi anni il romanzo italiano, da Nicola Lagioia passando per Di Fronzo e Cognetti (solo per citarne alcuni), ha avuto la necessità di confrontarsi con la figura del padre. Come mai, secondo te, il conflitto e la ricerca di un confronto paterno risulta oggi così necessario?
Beh, è uno degli archetipi più potenti che ci siano rimasti. È il sangue, il tempo: penso che sia normale parlarne, per tutti in ogni epoca, da Abramo e Isacco in poi.
Certe volte mi ritorna in mente un passaggio nei Diari di Sylvia Plath in cui lei dice pressappoco: di cosa puoi scrivere, ancora, in questo mondo? Il romanzo ottocentesco aveva a disposizione una serie di convenzioni sociali da cui far scaturire tragedia: il matrimonio, il peso assegnato alla religione… Adesso siamo in un mondo in cui ci togliamo e mettiamo i vestiti sempre più in fretta, è tutto un chiacchiericcio e non ci importa più di niente, sembra: i legami familiari sono sempre lì, non puoi scappare; non potevi seimila anni fa e non puoi neanche oggi.
(Ho cercato quel passaggio di Sylvia Plath nei Diari, e non lo riesco a rintracciare; ne ho trovato un altro, che forse è quello che intendevo e la mia pessima memoria ha trasformato. Sta parlando del suo tentativo di dar corpo a un romanzo).
Autore: Sandro Campani
Editore: Einaudi
Collana: Supercoralli
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