Charles D’Ambrosio: Ho cominciato a scrivere racconti perché non ero sicuro di poter essere uno scrittore.

Charles D'ambrosio Perdersi

In questa primavera torinese animata dal Salone Off 365, sono tanti gli ospiti internazionali che stanno arrivando a Torino in attesa dell’inizio della trentesima edizione del Salone del Libro.

Tra i tanti, molto atteso l’incontro con Charles D’Ambrosio, maestro della short story americana edito in Italia da minimum fax. In occasione del breve tour dedicato a «Perdersi», la sua ultima raccolta di saggi, ho avuto modo di parlare con un grande amore letterario, disponibile e sorridente.

Dopo aver letto e riletto le sue storie, dopo aver regalato montagne di copie de «Il museo dei pesci morti», ecco l’impensabile: una semplice chiacchierata tra un lettore appassionato e uno dei suoi autori preferiti.

Come mai prediligi la forma del racconto breve? È come se la short story ti permetta di esprimere la pienezza del tuo sguardo, non a caso non ti sei mai dedicato alla forma più lunga.

Sai non so di preciso, innanzitutto sto lavorando per la prima volta ad un romanzo, anche se nell’immediato futuro mi auguro ci siamo sempre i miei racconti. Se penso ai racconti che amo di più vedo un’enorme difficoltà, credo infatti sia molto difficile mettere dentro tutto quanto in una spazio che è davvero piccolo, condensare, comprimere e sottintendere molto di più di quanto un piccolo spazio sembra poter contenere. In un romanzo la gente si alza al mattino, si mette le calze e poi le scarpe e tu dici “wow, quante informazioni!”. In un racconto tutto questo devi saltarlo e arrivare all’essenziale. Amo questo tipo di difficoltà, è per me una sfida eccitante. Sai, penso di aver cominciato a scrivere racconti perché non ero sicuro di poter essere uno scrittore; volevo vedere se ce l’avrei fatta.

Mi chiedo se il rapporto con il racconto nasca dalla giovane età. Leggevi tanti racconti da piccolo?

Non molti in effetti. Leggevo libri sui giocatori di baseball…

Noi lettori italiani, con «Perdersi», ti abbiamo potuto leggere in una forma inedita: quella del saggio. Come lavori con questa forma rispetto a quella più narrativa?

Sono due modalità che si assomigliano perché in uno spazio limitato devi fare molto e ci deve essere massima densità. Un po’ come camminare su un filo sospeso e senti quasi una paralisi, una sensazione che mi piace molto.
In un certo senso in un saggio puoi rendere te stesso il soggetto, un soggetto che pensa a determinate cose e a ciò che pensi senza nessun filtro. Il soggetto del saggio è qualcosa che conta ma non tanto quanto il movimento della mente, il movimento che è il pensiero. Come passi da una cosa all’altra a quella successiva trovo sia il grande mistero della non-fiction.

Ogni tuo libro, per i tuoi lettori affezionati, è sempre un evento. Come mai scrivi così poco?

Ci sto lavorando…sai no, gli impegni di vita, ma soprattutto l’insegnamento.

Nelle tue storie ci sono dei punti cruciali nei quali emergono attimi decisivi in cui i tuoi protagonisti prendono il più delle volte decisioni difficili. Come ti rapporti con questi momenti di grande intensità? Da dove arriva questa sensibilità al mondo dei sentimenti?

In effetti è una gran bella domanda perché non so di preciso da dove arriva. Come tutti anche io provo una gamma di sensazioni, ma ciò non significa necessariamente che quelle siano le mie emozioni nel momento in cui scrivo. Solitamente parto dall’immaginare un’emozione e l’abbino a un personaggio che si trova sotto qualche tipo di pressione psicologica, per cui nel processo di scrittura quelle emozioni non sono propriamente le mie.

Se ti dovessi definire come scrittore, avendo già dichiarato di non essere un uomo melanconico, come ti descriveresti? Ti senti più vicino alla felicità o alla tristezza?

C’è una cosa strana che succede durante la scrittura: puoi scrivere una storia strappalacrime, ma lo scrittore che la sta scrivendo è in realtà eccitato ed esaltato all’idea di quello che sta facendo. Da scrittore sei felice anche se stai scrivendo una storia drammatica. Ha senso secondo voi? Del tipo: «Sto centrando il punto chiave nonostante possa essere molto triste, ma durante la scrittura mi sento vivo, mi rendo conto di star attirando l’attenzione e la concentrazione e ne sono sempre eccitato».

Il tuo cognome rimanda palesemente a delle origini italiane. Eri già stato nel nostro paese? 

Prima di tutto in America nessuno ha il mio cognome, nessuno sa come si scrive, anche a causa di questo apostrofo e spesso la gente non riesce a trovare il mio nome nemmeno nei computer perché non riconoscono questo segno. Comunque sono per metà italiano e per metà irlandese, i miei nonni paterni erano italiani e qui ci tornerò sicuramente siccome ho intenzione trasferirmi. Vorrei tornare e insegnare per un mese alla Scuola Holden di Torino, ma non so ancora di preciso quando. Quindi tornerò, mi piace questa città anche se ho sentito che non sempre c’è il sole in questo periodo.

E non ti sei mai avvicinato a questa lingua e alla sua tradizione?

No. Sai, c’è un aspetto interessante circa l’immigrazione negli USA, c’è tutta una forte pressione nel diventare veri americani. A molti italo-americani viene insegnato di provare vergogna per loro stessi proprio a causa delle loro origini, così da diventare americani a tutti gli effetti. Devi diventare americano e lasciarti il passato alle spalle. Per cui nel diventare un americano perdi qualcosa e per noi, per me e la mia famiglia fu così, perdemmo qualcosa.

Molti dei tuoi lettori sono abituati ad associare il tuo nome a grandi scrittori americani. Volendo finalmente risolvere l’arcano, quali sono stati quelli che ti hanno formato e che reputi imprescindibili?

Certo! Hemingway e John Cheever ad esempio. Carver invece è quello a cui mi sento più legato, siamo originari della stessa zona e lo trovo significativo. Prima di lui non avevo mai letto autori che scrivessero di luoghi che conoscevo in prima persona, questo suo aspetto mi ha segnato profondamente. È come se mi avesse dato il permesso di fare quello che stavo facendo. 

Parlando di autori importanti, cosa hai provato quando hai ricevuto grandi apprezzamenti da Philip Roth?

Ero emozionatissimo. Mi inviò prima una lettera dopo aver letto un qualcosa che avevo scritto e pubblicato per The Paris Review, una delle  più importanti riviste americane. Lesse il mio pezzo, gli piacque e mi inviò questa breve lettera. Fu una scossa elettrizzante perché i miei genitori leggevano Philip Roth, quindi sono cresciuto con tutti i suoi libri ben disposti sugli scaffali di casa mia. Fu pazzesco.

Tutti i racconti che hai scritto si presentano in una forma quasi matematica, ogni parola è messa nel punto giusto, tutto è calibrato alla perfezione. Quando capisci che quello che stai scrivendo si avvicina al risultato sperato?

Non son sicurissimo che scrivere racconti sia più difficile di scrivere romanzi, sono difficili ognuno a suo modo. La gente potrebbe pensare che scrivere racconti sia più semplice perché sono più brevi, ma è proprio la brevità ad essere così difficile. Quando mi rendo conto di aver finito? Beh, è come fare un puzzle, voglio dire, puoi scrivere una storia di una vita intera e quando la persona muore è finito, ma non è così che funziona il mio processo di scrittura. All’inizio della stesura di un racconto è come se lanciassi in aria delle palle, proprio come un giocoliere e so di dovermi occupare di tutte quelle palle contemporaneamente e capisco di aver finito davvero quando ho reso giustizia a tutto ciò che ho lanciato in aria. Ha senso?

Avendoti scoperto anni fa attraverso un appassionato consiglio di lettura mi piacerebbe lasciarti chiedendoti di fare altrettanto, di consigliare un libro a te molto caro.

Volentieri, non si tratta però di un qualcosa di nuovo. Consiglio di recuperare Città amara di Leonard Gardner, un romanzo letto ultimamente che è riuscito a sorprendermi.


Ed è così che D’Ambrosio ha rivelato la stessa voce usata nei suoi libri, l’umiltà di chi ha interesse nel voler definire i sentimenti del mondo e sottolineare ogni aspetto dal suo personale e sincero punto di vista. Un autore imprescindibile per tutti gli amanti della letteratura a stelle e strisce, ma anche per chi non ha paura di perdersi per ritrovare il sapore delle grandi storie.

Autore: Charles D’Ambrosio
Editore: minimum fax
Collana: Sotterranei
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tag #Americana #Seattle

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