Giusi Marchetta: Abbiamo il diritto di raccontarci la nostra vita.

Quando incontrai per la prima volta Giusi Marchetta non sapevo fosse una scrittrice. Ricordo un’edizione del Salone del libro di Torino – forse quella del 2012 – in cui con fare sornione stalkeravo Paolo Cognetti, lui lontano anni luce dal suo Strega, io ancora troppo inesperto in quanto a letteratura italiana e Giusi pronta per moderare la presentazione.

Rimasi colpito dalla sua capacità di far parlare storie lontane, dall’analizzare in maniera lucida qualsiasi tipo di aspetto letterario e non, dal suo sguardo comparato.
Da quel giorno, condividendo la stessa città, ogni evento al quale partecipava quella voce così appassionata, sapevo sarebbe stato sinonimo di qualità.

Gli anni sono passati, così come i lavori pubblicati, senza che io per qualche strano motivo mi decidessi ad approfondire, di capire cosa avesse da offrire sulle sue pagine quella lettrice onnivora. Esce quest’anno «Dove sei stata» (edito Rizzoli) e decido di leggerlo.

La Reggia di Caserta sullo sfondo e Mario – un uomo con un passato piuttosto articolato alle spalle – di ritorno verso i boschi della sua infanzia, gli stessi dai quali è andata via la madre. Questa la premessa.

Parte da qui questa chiacchierata, dall’incontro di un lettore e di quell’autrice che per poca lungimiranza del sottoscritto rischiava di mostrarsi a metà. Obbligatorio quindi questo ritratto capace di ricordarmi come questa penna l’avessi sempre avuta così vicino.

Dalle origini a Dove sei stata. Qual è stato il tuo percorso?

Ho cominciato con i racconti, Dai un bacio a chi vuoi tu è il libro con il quale ho vinto il Premio Calvino. Ho cominciato a scriverli a Napoli mentre frequentavo il laboratorio di Antonella Cilento. Allora lavoravo prevalentemente sulla forma del racconto. Credo siano una cosa straordinaria: i racconti ti danno la dimensione di cosa significa lavorare sulla scrittura.

Su consiglio della Cilento ho mandato il mio libro al Calvino e ho poi lavorato a un altro libro di racconti (Napoli ore 11) nel quale credo ci sia la storia migliore che abbia mai scritto. Grazie a Davide Musso di Terre di Mezzo sono finita in un corredo di buonissime scrittrici pubblicate da questo editore. Non lo dimenticherò mai.

Dopo mi sono trasferita a Torino per insegnare e, avendo avuto un’esperienza drammatica con un ragazzo autistico, ho scritto L’iguana non vuole. Era un anno di grande sofferenze, di cambiamento e la scrittura mi sembrava il modo più normale per scavare e non liberarsene mai più. Quell’anno si presentò Michele Rossi di Rizzoli chiedendomi se avevo una storia e così mi dedicai al mio primo romanzo.

E Lettori si cresce?

Nel mezzo c’è stato Lettori si cresce, una sorta di deviazione. Non sono mai stata capace di scrivere un saggio ma mi dissero che poteva essere anche narrativo, così pensai che quella fosse la dimensione in cui potevo esercitare la scrittura che più mi piaceva, potevo di nuovo giocare su due fronti a me cari: quello del passato e quello del presente. Potevo lavorarci su una cosa che mi interessava come la lettura per i ragazzi.

Con quest’ultimo lavoro, come è stato ritornare al romanzo?

Ho fatto tesoro delle difficoltà del primo, anche quello era intrecciato tra più dimensioni temporali. La mia idea è questa: poiché ci portiamo dietro il passato è inevitabile che tu adesso sia seduto a un tavolino con me e al tempo stesso sia la stessa persona che ha vissuto una certa cosa dieci anni fa, quindi anche quella cosa è seduta al tavolino con te. Io volevo trasportare nella mia scrittura questo e quindi l’azione presente, come anche nell’Iguana, è sempre interrotta dal passato. Questo meccanismo mi affascina ma si può rivelare molto complicato.

Anche in questo ultimo romanzo, ho continuato su questa strada (non l’abbandonerò mai). Credo che il confronto tra passato e presente sia la mia dimensione ma questa volta volevo rendere tutto migliore a livello di scrittura. Ad esempio ho fatto in modo che la narrazione non si interrompesse nello stesso capitolo ma si andasse avanti e indietro nel tempo da un capitolo all’altro, tranne verso la fine del libro quando il passato si intromette in modo più prepotente.

Non ho letto l’iguana non so quindi che tipo di voce tu abbia usato, in Dove sei stata ti sei affidata a una voce maschile. Si tratta quindi di confrontarsi con un tipo di voce sicuramente stimolante per una scrittrice. Come è stato narrare attraverso questa voce e quali difficoltà hai trovato?

Per l’Iguana era una voce femminile e c’era proprio un problema di sovrapposizione tra me e la mia protagonista. Quello era stato il mio errore. In questo ultimo lavoro ho messo una distanza dal personaggio. In realtà la distanza dal protagonista un po’ ti aiuta perché ti aiuta a pensarlo come un personaggio del libro. Quando sei un Io narrante troppo vicino al protagonista a volte vedi con i suoi occhi ed è molto difficile distaccarti mentre l’autore dovrebbe sempre sapere di più dei suoi personaggi. Con Mario il problema non si poneva perché era maschio: sentivo che la storia andava raccontata dal punto di vista del figlio ed è stata proprio questa la sfida più impegnativa.

Mi reputo una persona femminista e per me una donna ha il diritto di andare via di casa, ha diritto di fare le sue scelte, di aprire la gabbia, c’è un sacrosanto diritto alla fuga. Se avessi scritto il libro adattandolo alla mia convinzione personale, avrei scritto il libro di una donna che andava via di casa ed era giusto che lo facesse e basta; prendendomi carico del dolore di Mario invece sono stata costretta a guardare tutto da un’altra angolazione che non cancella quel diritto, ma mi permette narrativamente una cosa molto più interessante: quella di raccontare la storia dal punto di vista di chi ha subito quella scelta.

La dualità tra maschile e femminile è questa: Mario attraversa la storia non solo attraverso la madre ma attraverso una serie di figure femminili tutte particolari, tutte con una storia alle spalle. Alla fine del libro lui le vede probabilmente con dei contorni più definiti, cioè smette di vederle come pensa che una donna dovrebbe essere, e comincia a vedere i contorni di ogni singola donna. Si tratta di un personaggio limitato comunque e non di uno messo lì a imparare la lezione; il mio non è un libro che vuole impartire una lezione, volevo semplicemente raccontare una storia.

Oggi più che mai c’è un’ombra tra la parola uomo e la parola sentimento, come se noi uomini avessimo sempre più difficoltà a far pace con i sentimenti. Dall’esternazione alla concretizzazione di questi, anche il tuo protagonista sembra esserne investito.

Credo sia verissimo. Lo vedo nell’educazione dei bambini: a scuola sono abituati a pensare che questa sia una debolezza, che i maschi queste cose non le facciano. C’è una divisione dei ruoli anche nel gestire il sentimento. Io sono stata abituata a una generazione per cui l’uomo è così, non può cedere, e secondo me gli uomini di oggi hanno la grande opportunità di allontanarsi da quel modello ed essere più liberi. Il problema del mio protagonista e dei miei coetanei maschi è che quel modello c’è ancora, si confrontano ancora con quello. Non hanno ancora trovato una quadra perché da un lato continuano a esistere certe strutture ma dall’altro sia gli uomini che le donne stanno cercando un’altra identità.

Quello che mi sono chiesto più volte, guidato da questa terza persona che dall’alto racconta, se non c’era secondo te il rischio – cosa che non è avvenuta, quindi mi chiedo come tu abbia fatto ad arginarla – di avere una voce che in qualche modo giudicasse la narrazione.

Tutti i personaggi hanno un motivo per fare quello che hanno fatto, questa è stata l’unica cosa che mi ha salvato dal giudicare. Io non posso giudicare il Capitano perché in fondo lo capisco e non poteva fare diversamente, non posso giudicare Anna, Suor Marta. C’è solo un personaggio su cui potrei non avere un giudizio positivo ma non posso svelarlo a chi non ha ancora letto il libro. Per tutti gli altri non ci può essere giudizio negativo.

Al fondo dell’uomo non c’è la bontà ma l’errore, questo credo faccia parte della tua storia e non solo.

Tutti siamo colpevoli, tutti siamo innocenti, questa è di Dostoevskij ma io la condivido perché non ci può essere giudizio se tu ascolti. Una scena che insegna questo è anche quella del Conte Ugolino che nell’Inferno di Dante divora la testa dell’Arcivescovo Ruggeri perché lo aveva chiuso in una torre con i figli e i nipoti condannandolo a morire di fame. Probabilmente mangiò figli e nipoti e per l’eternità ha la possibilità di divorare il teschio del suo nemico. Quando Dante lo vede, pensa che Ugolino sia un mostro fino a quando il conte non racconta la sua storia e gli dice: “Se non piangi per la mia storia di che pianger suoli?”. Come a dire: “Se non capisci quello che sto facendo io, che cosa capisci?”. Questa cosa qui dovrebbe essere imparata a memoria da tutti perché si smetta di sbattere il mostro in prima pagina senza chiedersi prima cosa sia successo a quella persona prima di fare quello che ha fatto.

C’è comunque una grande lezione…

Della letteratura perché è sempre la letteratura che ci insegna questo messaggio di comprensione.

L’iguana nasceva dalla tua esperienza personale, dove è nata la scintilla che ti ha portato a raccontare questa nuova storia? Immagino ci sia un qualcosa di autobiografico anche in questo caso, come in qualsiasi racconto.

L’aspetto autobiografico è la Reggia di Caserta, l’ambientazione. Se vivi un luogo così, quell’ambiente lo senti più vicino e io l’ho vissuto si da quando ero piccola. Sia mio nonno che mio padre erano custodi e mia madre è cresciuta nella Reggia fino ai diciotto anni.

Anche tu hai quindi giocato tra quei sentieri. Sei stata bambina tra le statue del parco.

Anche io ho giocato tra quelle statue e ne avevo paura, anche io rimanevo nella Reggia e guardavo i ritratti dei Borbone pensando che erano tutti morti e mio padre era quello senza paura che al buio andava a chiudere tutte le stanze. Quindi la dimensione del padre senza paura, del concetto di granitico io la capisco. Mario sarà anche maschio, è vero, ma io lo capisco. Alcune delle sue paure sono mie e questo va oltre il genere.

Ed è una cosa sulla quale sei ritornata e hai deciso di approfondire solo per un discorso tematico?

All’inizio sì, mi piace l’idea di raccontare la storia di una donna che era andata via da lì. Volevo raccontare una donna che andava via di casa e la Reggia è una casa nella casa, avevo individuato una gabbia. È una città ma intorno la città non si vede, poi c’è la Reggia che ha il cancello che è chiuso, poi ci sono i matrimoni che sono un’altra gabbia, così come la maternità. Se ci pensi niente ti definisce come il fatto di essere mamma purtroppo, nel senso che culturalmente ti definisce ma questa cosa non è solo una questione emotiva. Culturalmente per noi donne quello è un ruolo e la difficoltà di vederti al di fuori di questo ruolo è anche personale. Una donna che vuole andare via di casa si deve confrontare per forza con il giudizio della società, molto più che un uomo.

Credo sia un discorso che vada anche oltre la maternità, è vastissimo.

Si, è vastissimo ma il problema è sempre il ruolo che tu attribuisci a una donna all’interno di un paese. Noi siamo un paese in cui la donna è mamma.

A riguardo posso sottolineare un aspetto in particolare, quello di una continua attesa nei confronti del mondo. Tutti i tuoi personaggi hanno questa attesa nei confronti del mondo, soprattutto Mario che in questa dinamica è immerso dall’infanzia.

Esattamente! Lui pensa che altrove sarà meglio, che fuori dal cancello della Reggia ci sia qualcosa e che quella cosa non sia sotto il dominio del padre.

Credi sia un’illusione che si fermi solo all’infanzia?

Secondo me il nostro problema comincia quando noi usciamo e vediamo che non c’è quel posto in cui pensiamo di andare liberi dai retaggi della famiglia e dell’educazione. Abbiamo sicuramente varie fasi nella vita ma la prima è quando usciamo, ci sentiamo di essere liberi e che non saremo come i nostri genitori; poi arriveranno le fasi in cui o ricalchi lo stesso sentiero, oppure ti rendi conto che la strada che hanno fatto non è quella che pensavi.

Tra le tue pagine, dall’infanzia all’età adulta, “espiare significava scontare il peccato, tornare puri”. L’espiazione, la purificazione, il saper esistere anche al buio in una condizione di luce. In contrapposizione ho trovato molte descrizioni in cui però il buio definisce i contorni, il buio è quella parte in cui alcune entità trovano la loro dimensione. C’è questa dicotomia continua.

Perché il buio è la verità. Questa è una cosa che deriva dal linguaggio religioso di Suor Marta. Non so la tua, ma nella mia educazione fino a un certo punto è entrata la religione e quella religione, la preghiera che facevi al buio la sera, doveva per forza essere una cosa vera perché se non fosse stata tale non te l’avrebbero fatta fare. La presenza di una religiosità autentica, per chi l’ha avuta come educazione, è una cosa che irrimediabilmente ti segna, anche se come nel mio caso ti ritrovi poi ad essere atea.

La differenza tra Suor Marta e Anna, tra l’amica e la madre scomparsa, è che Suor Marta viveva nel buio e viveva quello che voleva, qualsiasi desiderio, e rimanendo nel buio avrebbe potuto essere felice: invece poi ha voluto espiare per trovare la luce, essere sofferente nella vita, rinchiudersi per fare la cosa giusta.

È comunque un buio che durante l’infanzia viene visto come un gioco, tu lo racconti come una tenebra che si prende tutto quello che viene lasciato dietro. Essendo poi tu una narratrice molto curiosa di capire cosa ci sia sotto il velo della realtà credi che questo gioco con il buio – dopo averlo razionalizzato – possa solo prendere o possa anche dare?

Il gioco che faceva Mario durante l’infanzia era proprio quello di non farsi prendere dal buio. Alla fine del libro quella che potrebbe essere la lezione che forse suor Marta ha capito è che certe volte tu ti devi fermare e lasciar prendere, ci sono delle volte in cui devi perdere il controllo della tua vita per poter essere quello che sei veramente.

Poi considera anche tutta la dinamica del libro è legata all’aborto, compiuto nel buio per nasconderlo. Questo è un tema che sento molto: la data della legge sull’aborto (siamo nel ’78), è stata per noi uno spartiacque indicibile. Il divorzio e la separazione erano cose che riguardavano anche gli uomini ma dirti che tu sei padrona entro i tre mesi di non avere il bambino è stata una svolta epica nella nostra storia e quasi tutto il libro si costruisce attorno a questo passaggio.

Quando da uomo mi sono messo in questa vicenda e in questa negazione della maternità l’ho accettata, da grande amante della Fallaci era un’esperienza che avevo già attraversato.
Una struttura a matriosca mi ha rivelato degli elementi in più e quegli elementi mi hanno portato a vedere delle azioni e a capire come tutte avessero delle conseguenze e bisogna fare i conti con queste conseguenze. Questo rapporto di causa/effetto è uno degli aspetti più importanti.

Quello è uno degli aspetti più problematici nel raccontare per me il libro. Sono però fortemente convinta della responsabilità che abbiamo per le conseguenze di ciò che facciamo ma anche delle conseguenze di quello che non facciamo.

In Dove sei stata hai inserito diverse figure mitologiche e, a prescindere dal fatto che tu con quelle statue ci sia vissuta, hai giocato anche molto con il significato e i significanti. Questi hanno una grande forza nei confronti della contemporaneità.

Le statue ci sono davvero nel parco, le ho interpretate ma ci sono. Le ho guardate come le avrebbe guardate il mio protagonista. Ogni volta che interpretiamo un mito antico lo contestualizziamo immediatamente alla contemporaneità, lo rileggiamo di volta in volta, come una riscrittura. Nel bosco però, siccome sono tutte statue che hanno a che fare con la colpa, era in evitabile che Mario arrivasse davanti ad alcune di queste e vedesse nella pietra il peccato di sua madre che aveva idealizzato ma che sotto forma di statua ritorna nei suoi aspetti più concreti.

Come è stato architettare questo tipo di riscrittura fatta di antichità da piegare a favore della tua storia?

Ho fatto una mappa di tutte le statue e poi ho deciso quando dovevo farle entrare all’interno della storia. È stato un lavoro molto tecnico. Un esempio sono le date: essendo un libro ambientato tra presente e passato, a un certo punto ho dovuto cambiare una data e ho rischiato di far crollare tutto. Ho dovuto fare cambiamenti importanti, dall’età dei personaggi ai programmi televisivi.

Nonostante per scelta ci sia il freno a mano tirato, da autrice campana c’è una lingua ben precisa che inevitabilmente emerge. Mi racconti il percorso della tua lingua, il suo rapporto con l’antico e come questa è cambiata nel tempo?

Quando ho scritto Dai un bacio a chi vuoi tu ho intenzionalmente usato l’italiano regionale perché dava veridicità ai dialoghi e poi mi piaceva perché c’era un ritmo. Se il narratore raccontava con quel linguaggio per me quel racconto era vero; dirò una cosa molto superba: era un’operazione letteraria. Ogni racconto è ambientato in un preciso quartiere di Napoli e volevo contaminare tutto con quella lingua.

Quando ho fatto l’Iguana l’errore fu il contrario: scrivere un romanzo ambientato a Torino senza sfumature linguistiche.

Credi che sia stato un errore?

Per me lo è stato. Sento che ogni storia deve avere una ricchezza e considerando il tipo di narrazione, di costruzione, di lingua, ho pensato che i personaggi di Dove sei stata avrebbero dovuto parlare in modo più credibile. Non potevano parlare come avrebbero parlato nella realtà, usando quindi il dialetto, ma si poteva cercare una via di mezzo nel casertano, una forma di italiano regionale che è stato a lungo il mio idioletto.

Credo che questo contribuisca molto alla verosimiglianza dei dialoghi; i lettori dicono di percepirli come realistici e spero sia vero poiché mi piace molto vedere in che modo ciascun personaggio si esprime, faccio molta attenzione a come farlo parlare. In alcuni casi, soprattutto per personaggi che avrebbero parlato nella vita vera solo il dialetto, mi sono trovata a tradurlo lasciando qualche parola che desse colore al resto. Questo accorgimento rende la comunicazione più viva, più vera. Mi piace dare un tocco meridionale alla scrittura perché io stessa alcune cose arrivo a pensarle in una lingua dialettale, un linguaggio per certi versi lontano ma che rimane la mia lingua degli affetti. La Campania infatti ha un rapporto forte col dialetto e questa lingua. Ancora oggi è parte della nostra vita quotidiana.

Dove sei stata. Partiamo con il leggere un titolo di assenza e chiudiamo con una storia sul lasciarsi andare.

“Dove sei stata” si chiama così perché a me piace molto l’idea del passato prossimo, delle cose che sono state, quindi dire “dove sei stata” è dire implicitamente “ora che non ci sei più”. Tutti i luoghi che attraversa Mario nel libro sono stati attraversati dalla madre che ora è scomparsa. La Reggia non diventa più un posto in cui non c’è la madre ma è vuota di sua madre. Solo alla fine del libro Mario scopre l’ultimo posto in cui Anna è stata e da qual momento quel “posto” lo porta sempre con sé.

Un’altro aspetto chiave del romanzo è l’idea dell’avere un’idea narrativa della nostra vita.

Sì, dobbiamo avere il diritto di raccontarci la nostra vita. Siamo tutti hollywoodianamente guidati dall’idea della verità. C’è stato un delitto e tu vuoi scoprire il colpevole, la tensione sembra essere racchiusa nello scoprire la verità su qualcosa. Nel libro c’è una verità ma ogni personaggio sente il diritto di raccontarla a modo proprio e solo i più saggi riconoscono il diritto di un racconto diversificato, guardato dalla propria prospettiva. Questo non vuol dire che esista un relativismo assoluto sui fatti per cui esiste solo la nostra interpretazione delle cose ma che persone diverse che hanno partecipato agli stessi eventi accettano che ognuno interpreti quegli eventi in modo personale e che, anche se questa diversa versione della verità potrebbe risultare inaccettabile, capiscono la necessità di raccontarla così per superare un trauma e andare avanti.

Voglio tornare sullo sfondo della Reggia, hai infatti creato un microcosmo fatto di gabbie. Vorrei mi raccontassi questo tuo lavoro sul piccolo. Mettere tutti in gabbia significa arginare tutto e osservare i personaggi spingere contro le sbarre.

Mi sono fatta accompagnare nel bosco da mia madre dove abitava la mia famiglia e dove lei ha abitato quando era piccola. Sua madre è morta quando lei aveva cinque anni e desiderava avere una casa fuori dal parco. Morendo di parto mia nonna non l’ha avuta e mio nonno tutti i giorni della sua vita è andato a lavorare dove è morta la moglie. Ho pensato che c’erano delle persone che non potevano uscire da quei luoghi, proprio perché vi erano immersi, rinchiusi dagli eventi.

L’atmosfera del bosco era più ampia, io l’ho tagliata. Il mio personaggio attraversa il bosco e mi sembrava di farlo girare a vuoto, invece no, volevo che lo attraversasse, percorresse determinati sentieri e che alla fine precipitasse. Infatti il ritmo diventa più sostenuto. Come in Shining con il bambino sul triciclo, lui accelera nelle curve perché è nelle curve che può spuntare il mostro e quindi anche il lettore quando arriva “alla curva” del romanzo deve accelerare e andare a sbattere contro certe cose.

E cosa c’è dietro al restare?

Sia mia nonno che mio padre hanno un rapporto affettivo con il lavoro nella Reggia. Non è solo lavoro ma è una tutela verso un monumento da preservare in ogni suo dettaglio. Non bisognava toccare, sfiorare e contaminare. Per tutta la vita hanno fatto la guardia alle statue. Da un lato credo sia un’idea molto bella quella del papà che sorveglia l’antico, per certi versi anche molto letteraria, ma al tempo stesso sono convinta che la gabbia vada rotta. Raccontando questa storia volevo raccontare di gabbie che non possono essere rotte: la maternità come gabbia per una madre; il convento e il bosco come gabbie per una suora. Come dici tu ci sono molteplici gabbie tra quei sentieri.

C’è anche tutto un lavoro per certi versi inedito su quella che potremmo definire la “memoria degli altri”.

Mi piaceva l’idea di costruire un presente sulla base di un ricordo che non era vero. All’interno del romanzo c’è un bambino che deve subire una perizia psichiatrica per vedere se lui è un testimone attendibile. Seguendo la sua storia però ci chiediamo se possa esserlo, se noi stessi siamo testimoni attendibili. Non lo siamo perché i nostri buchi di memoria in qualche modo li colmiamo in altri modi, con narrazioni personali che ci permettono di andare avanti finché l’inconscio non si fa sentire.

Ho fatto una grande ricerca dal punto di vista processuale dovendo trattare due processi che si accavallavano. Tutto è nato da due fatti veri.

Il processo per l’affido nasce dalla Calabria, da quando si cominciò a levare i figli degli ‘ndranghetisti ai genitori, un’iniziativa controversa. Ho letto delle perizie: ho capito come si dovrebbero svolgere gli interrogatori dei bambini. Per il processo relativo al femminicidio mi sono ispirata a un fatto di cronaca di qualche anno fa in cui c’era una ragazza che stava discutendo sul balcone con il suo ex compagno: lui l’ha semplicemente spinta di sotto.

Questi buchi si possono colmare con la Letteratura?

Secondo me a un certo punto succede che la vita ti prenda per i capelli. A prescindere dal fatto che sia una cosa meravigliosa, la letteratura è il modo in cui altri hanno colmato quei vuoti. A un certo punto dobbiamo affrontare noi stessi e non sempre la letteratura degli altri arriva in soccorso. Certo, la letteratura mi ha sempre aiutato, colmato, mi ha sempre detto cosa dovevo pensare. Ci sono però dei momenti nella vita in cui senti solo la vita stessa, e la letteratura torna a essere una mera imitazione, il canto pari alla vita.


Dove sei stata è l’antico che torna per fare i conti con la contemporaneità, il passato che torna più famelico che mai. Una narrazione invasa dalle grandi domande della vita mi ha messo di fronte a fatti scomodi, aspetti nascosti.
Nel cercare la verità, nel pormi le domande giuste, anche chiedendomi dove fosse tutto, ho capito di aver avuto sempre ogni cosa così vicina. Così come era stato per me con Giusi Marchetta, questo ormai è chiaro.

Le volte basta allungare una mano, fare un piccolo sforzo andando oltre ogni paura, per trovare una parola amica. Non sono mai le domande, è lo sguardo.

Autore: Giusi Marchetta
Editore: Rizzoli
Collana: Rizzoli narrativa
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