Hakan Günday presenta «Ancóra» @ Writers

La terza edizione di Writers, il festival letterario con base ai Frigoriferi Milanesi, ha ospitato Hakan Günday. Ad accompagnarlo Fabio Geda e le intense letture di Vincenzo Costantino. L’autore turco, dopo il successo mondiale di «A con Zeta», ritorna in Italia con «Ancóra» (Marcos y Marcos).

Nel suo ultimo romanzo l’autore racconta della storia di Gazâ, un ragazzino figlio di un trafficante d’uomini grazie al quale ha potuto approfondire alcune domande precise: qual è la relazione tra individuo e società e tra individuo e massa?.

“Descrivere è il miglior mezzo per pensare e da quindici anni provo a scrivere di tutto ciò di scioccante e che non capisco. Ho da sempre utilizzato le storie per elaborare delle domande e suscitarne altre mille.

Nel 2012 la stampa turca ha cominciato a far riferimento a cifre di persone morte annegate, persone la cui sola identità era quella di essere morti.

Siccome la violenza è un mezzo di comunicazione della nostra società, ho preferito raccontare questa storia attraverso gli occhi del trafficante.
Un bambino non è abituato alla violenza e alle cifre dei giornali, poteva essere il mezzo per scoprire la realtà dei migranti. Gazâ è uno specchio del mondo che subisce le politiche mondiali e lo sfruttamento. Il mondo stesso manda verso di lui questi disperati.”

Günday, per dividere le quattro parti del romanzo, ha utilizzato quattro tecniche tipiche della pittura rinascimentale.

“Volevo raccontare una storia nel modo più completo possibile. Raccontare la storia di migranti vuol dire veder persone che si avviano verso un buco nero, guardie costiere che cercano migranti nell’Egeo e politici seduti a un tavolo in cerca di fermare questi flussi. Avviene tutto nello stesso momento.
L’unica disciplina che ci consente di vedere tutto nello stesso istante è la pittura, solo così i personaggi possono essere rappresentati contemporaneamente.
Ho scelto le quattro tecniche rinascimentali perché questa è una storia di rinascita”.

Tra le pagine di Ancóra c’è un riferimento costante alla bellezza distrutta. La bellezza può salvare l’uomo? Può indicare una direzione da seguire? Come reagisce uno scrittore di fronte alla distruzione dei Buddha di Bamiyan?

“La bellezza esiste in natura, non dobbiamo crearla noi. Credo possa indicare una direzione o essere una luce e saremo solo noi a capire se nuotare verso essa. Nella storia c’è una distruzione importante, è il momento in cui capiamo che l’uomo può far la guerra anche alla pietra”.

Questa evasione/invasione com’è raccontata in Turchia? Ci si sente sereni a scrivere in questo paese?

“Noi scrittori turchi abbiamo fatto molte esperienze di censura e sappiamo cosa sia. La censura è un bambino di cinque anni: si rivolge dove c’è più luce e rumore. In passato erano le poesie, oggi romanzi e giornalisti. Fortunatamente le persone che mi dovrebbero creare problemi non mi leggono, i censori leggono più i tweet che i romanzi. Dobbiamo capirli, hanno cinque anni, hanno appena imparato a leggere. Dobbiamo perdonarli”.

Alla base del romanzo c’è un lavoro sul concetto e l’idea di racconto. Hai fiducia nel racconto?

“Ho fiducia nel mettere in evidenza ogni traccia di violenza su pelle e sull’anima. Così mi fido di ogni strumento e ogni disciplina artistica che renda visibile queste impronte. Credo che il racconto ci permetta di stare in pace, è un’accettazione del fatto che siamo in guerra con noi stessi, è possibile addirittura morire senza accorgersi di questo.
Il racconto va a prelevare il passato e lo sovrappone con lo specchio del nostro io. Per andare verso noi stessi bisogna attraversare il passato del racconto. Anche la Turchia dovrà raccontare il suo passato per tornare a essere in pace con se stessa.

In questo momento la Turchia sta cercando un’identità, ne sente la mancanza, deve improvvisare la sua identità. La Turchia che guardiamo oggi in tv è dietro la finestra. Le tragedie non sono così lontane da noi. Se volete sfuggire alle tragedie del mondo dovete scappare su un altro pianeta. Per essere felici quindi bisogna raccontarsi una storia, passare attraverso lo specchio, recuperare il nostro passato e riconciliarci con la terra”.

Günday è un abile studioso delle parole: palindromi, sfumature e giochi di parole sono messe al servizio dei suoi lavori.

“Le parole sono la materia prima del pensiero. Ho un rapporto viscerale con il dizionario turco e le cui parole aspettano solo di essere raccontate. Scrivere una storia è qualcosa di istintivo e da anni ho preso coscienza che non riuscirò a scrivere il libro che voglio, perché i miei romanzi sono solo tentativi di un grido, per portar fuori le parole che appartengono al nostro passato.”


Parole forti e dirette usate con consapevolezza. Ancóra ha tutte le basi per essere un romanzo ambizioso, sperimentale e per nulla scontato.
Vedere Hakan Günday è stata una esperienza intensa e inaspettata, il consiglio è quello di scoprirlo e di non perdere le prossime date italiane.

Autore: Hakan Günday
Traduttore: Fulvio Bertuccelli
Editore: Marcos y Marcos
Collana: Gli Alianti
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tag #Migranti #Turchia

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