Juan Emar: lo scrittore di Ieri, lo scrittore di domani.
È sempre una sorpresa, quella di scoprire una nuova voce significativa in una letteratura fervente, magari proprio in quella specifica che crediamo di conoscere in molti dei suoi aspetti e dei suoi rappresentanti. Vuoi per esperienza, per passione o semplicemente per una qualità che difficilmente un amante della buona letteratura potrebbe ignorare e dovrebbe indagare, come a sentirsi un archeologo della parola, vivendo una delle esperienza più belle per un lettore. Ed eccomi qui, ancora in quell’America del Sud, meravigliato nel percorrere una nuova strada che nessuna cartina in mio possesso segnava come viabile, come esistente.
Così ho conosciuto Juan Emar, ovvero J’en ai marre, che in francese significa “sono stufo”. Dietro questo pseudonimo si celava Álvaro Yáñez Bianchi, uno scrittore cileno sconosciuto ai più, anche a chi – come il sottoscritto – di letteratura ispanoamericana ne ha masticata una discreta quantità. Con «Ieri» (grazie alla sempre coraggiosa proposta di Safarà) arriva per la prima volta in italiano, nella traduzione di Bruno Arpaia, una voce ricordata da pochi e capace di lasciare una direzione in un passato che parla ancora ai giorni nostri.
È quasi assurdo oggigiorno presentare Emar come uno scrittore dimenticato, perché la sua opera non è mai stata, per così dire, sufficientemente ricordata.
Alejandro Zambra, uno degli autori più importanti del Cile di oggi non ha dubbi: ci troviamo di fronte a qualcosa di importante, sia dal punto di vista editoriale sia da quello del lascito rispetto a una tradizione stratificata come quella legata alla lingua spagnola.
A essere dimenticato è uno scrittore che nel 1935 pubblicò a stretto giro tre romanzi, tra cui «Ieri», veri e propri fallimenti di pubblico e critica. Non sorprende sapere di un astio profondo proprio nei confronti di quel mondo letterario dal quale Emar decise di auto-esiliarsi, rigettandolo senza però abbandonare la scrittura. Così cominciò a scrivere quel romanzo che lo avrebbe accompagnato in ogni giorno della sua vita, fuori da ogni schema, immerso nella libertà di chi era riuscito ad allontanarsi da ogni vincolo e affermare:
Il mio rifugio consisteva nel non pubblicare, no, non pubblicare mai più finché altri, che io non avessi conosciuto, mi avrebbero pubblicato seduti sui gradini della mia tomba.
Del futuro poco gli sarebbe importato, soprattutto quando nel suo presente era riuscito a essere la figura di quello scrittore alla quale aveva sempre ambito. Solo nel 1996, trentadue anni dopo la sua morte, venne pubblicato il suo lascito di quasi 5000 pagine.
Per guardare a ieri ho però dovuto girare la testa, partecipare a un fine gioco dell’assurdo. Il surrealismo pervade tra queste pagine ogni singola e stramba vicenda ambientata tra le strade di San Agustín de Tango, la città immaginaria creata dallo stesso Emar, in questo caso già precursore della tradizione dei più famosi luoghi immaginari del sur: obbligatorio citare la Santa María creata anni dopo da Juan Carlos Onetti, la Santa Teresa che accolse tutto il male di Roberto Bolaño o la più gettonata Macondo di Gabo.
È tra le strade di questa cittadina che seguiremo una giornata della voce narrante, tutta l’esperienza che essa riuscirà a fare sua attraverso una serie di strane “vicissitudini d’esistenza”. Da un’esecuzione pubblica con tanto di ghigliottina, alcuni pasti filosofici, una visita allo zoo animata da uno scontro tra uno struzzo e una leonessa, seguita poi dalla visita all’amico pittore Rubén de Loa, alla pancia di uno sconosciuto in una sala d’attesa, senza farsi mancare le ultime colte riflessioni durante una pisciata apparentemente come tante, ma unica nel suo genere. Questo è molto altro in una giornata in cui il lettore attraverserà eventi tanto bizzarri quanto intensi per provare a ricavare qualcosa in più dalla realtà.
La parentesi francese di Emar, così come i suoi esordi nel mondo della pittura ci riportano alla genesi di un artista che sembra lui stesso il protagonista di una corrente il cui unico obiettivo è quello di scavare nella mente di noi tutti, nell’archeologia nascosta di quello che ci circonda e dei nostri sentimenti.
(…) contento di portarmi dentro, per tutta la vita, una nozione nebulosa, indefinita di ogni cosa che mi sia passato per la testa di chiamare realtà.
Affonderemo le unghie nei pezzi di un passato tanto distante quanto condiviso e lo faremo solo per provare ad essere, per mettere al centro la questione sull’essere in una realtà in cui i fatti succedono secondo la logica del ricordo. Solo grazie a questa intenzione autori come Witold Gombrowicz avrebbero potuto interrogarsi decenni dopo sull’uomo e l’artificialità, ripartendo proprio da questa intenzione filosofica, solo grazie a questo scrittore perso nell’oblio.
Dovremo sottostare alle regole del mondo, nonché a tutti quegli avvenimenti davanti ai quali dovremo riafferrare un equilibrio interno. Cosa succederebbe se dietro a quel divano ci fosse proprio quell’entità che ci getterebbe nel baratro della pazzia? Avremo comunque il coraggio di guardare o di lasciare i nostri demoni inconsci in libertà? La realtà di Emar diventa tra queste pagine una continua lotta tra le macchie oscure della nostra testa e la poesia. Tra quelle parole non spaventano i morti, ma le idee, la mancanza di un pensiero alternativo.
Le cose succedono così signori miei. (…) Ma tutti in ogni istante non ci fermiamo né ci pensiamo abbastanza.
La prima persona descrive immersa nell’esperienza, servendosi di una scrittura limpida, chiara come tutte le forme che possiamo seguire, come le certezze della ragione. La gioia più grande è stata la scoperta dell’illusione della verità, della capacità di accompagnarmi nel complesso e affollato incrocio della non-realtà, proprio lì dove si nasconde l’essenza delle cose.
Zambra, nella prefazione al libro, racconta dei paragoni fatti all’università cilena da lui frequentata tra Emar e i grandi del racconto, Cortázar su tutti. Una comparazione forse azzardata, ma non inesatta, non per chi anticipò il Pedro Paramo (1955) di Juan Rulfo e riuscì a stringere un rapporto di grande stima con uno dei più grandi cileni dei suoi anni: Pablo Neruda.
Ed è vero, dalle intersezioni di ieri, Emar resta attuale anche per indagare gli anfratti di oggi. Lo è per una realtà ancora peggiore e più complessa di quella che conobbe lui. Non è un caso che ogni vicenda di «Ieri» si concluda con una fuga, con un “Andiamocene! Andiamocene!” che la voce narrante rivolge alla moglie, alla compagna della sua esperienza irreale.
Emar sembra correre lontano dal pericolo, ma è tutta un’apparenza, non è quello che la riflessione sull’ieri, sul tornare indietro, anche solo voltandosi, mostra veramente. Seguendo la sua direzione, il suo sguardo, ho letto della complessità dei nostri cuori, di un autore il cui manifesto risuonerà ancora e ancora tra i cimiteri e i lettori di domani.
Escribiré y escribiré y escribiré.
Scriverò, scriverò e scriverò.
Autore: Juan Emar
Traduttore: Bruno Arpaia
Editore: Safarà
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